In morte di Silvia Focchi
Omelia tenuta dal Vescovo nella liturgia esequiale
L’altra sera, nel primo incontro dopo la dolorosa notizia della morte della carissima Silvia, quando ho incontrato i fratelli Maurizio e Paolo insieme alla Paola, l’amica che le è stata vicino fino al termine, mi sono fatto raccontare le ultime ore della nostra indimenticabile sorellina. A un certo punto Paolo ha tirato fuori il cellulare e ci ha fatto vedere un video ripreso il giorno del suo compleanno, appena due giorni prima della sua morte. Vi appare una Silvia radiosa come una sposa, con il suo inconfondibile sorriso limpido e lo sguardo luminoso, mentre lancia un ultimo saluto, fatto di pochissime parole: “Ciao! Salutatemi tutti! Ciao a tutti!”.
1. Mi sembra che nelle quattro lettere di questa semplicissima parola – ciao – si concentri quello che potremmo chiamare il testamento spirituale di Silvia. Sappiamo che questo saluto confidenziale viene dal veneziano “Schiao”, e significa letteralmente: “servo, servo tuo, servo vostro”. Non credo di andare sopra le righe, se mi permetto di entrare con pudore e discrezione dentro questa paroletta e di coglierne l’ordito dell’intera trama della vicenda di Silvia.
Leggo quel ciao come il grido di un bambino che si slancia felice in una nuova avventura, un grido fresco e allegro di chi è ben consapevole di non finire in un salto letteralmente “mortale”, ma di spiccare, come in un secondo parto, un balzo “vitale”, nella certezza di non precipitare nella buia voragine del nulla, ma di cadere tra le braccia di un Dio-Papà che ci immerge nel mare senza fondo e senza sponde di una vita nuova, in-credibilmente vivace e appagante.
Quel ciao è come l’ultimo passo di danza sulla soglia della porta santa di una casa-famiglia stracolma di gente bella, buona, beata, dove tutti fanno festa con tutti, formando un cuore solo e un’anima sola, e insieme compongono in santa armonia una sola grande, cara famiglia, in una fittissima “rete” non virtuale, ma virtuosa, fatta di uno splendido mosaico di volti, di sguardi, di cuori.
Quel ciao è come il primo sorso di acqua tenuto gelosamente tra le palme a conca, perché nessuna goccia se ne perda, ma anzi in modo che possa bastare, e certamente basterà, lungo tutto il migrare dei giorni, per tutta l’eternità: è l’acqua della vita nuova, l’acqua chiara, fresca e dolce che zampilla per i secoli dei secoli.
2. Ma ora permettetemi di fare un altro passo avanti, nella scoperta del segreto, inciso nell’ultimo ciao solare e sonoro, firmato da Silvia. Quel segreto si articola in alcune parole di una esistenza autenticamente e pienamente umana. Sono parole che vorrei declinare in rapida elencazione.
Il primo messaggio fa rima baciata con la lettura tratta dall’epistolario di san Giovanni, che abbiamo ascoltato poco fa: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14). Sì, Silvia non è arrivata a quel ciao con la rabbia in corpo per la vita che stava per esserle scippata in una età tanto acerba, ma vi è giunta con lo stupore per la vita che le era stata donata. Il rischio in questi casi lo conosciamo bene: è quello di farci paralizzare dalla paura amara che la vita possa finire. Dobbiamo invece coltivare la paura buona: che la vita non possa cominciare mai davvero. Questa allora è la preghiera che mi permetto di suggerire a tutti, anche a chi non crede alla preghiera né alla vita eterna, per i quali spero comunque che il mio suggerimento rispettoso e discreto possa valere almeno come invito fatto sottovoce per una riflessione, sia pure veloce: “Signore, noi non ti chiediamo perché ci hai tolto Silvia, ma ti ringraziamo perché ce l’hai donata”.
Il secondo messaggio scolpito nel ciao di Silvia si condensa nella parola amore. Amare non è fare cose grandi, grandiose, strabilianti. Piuttosto è fare anche le cose piccole, ordinarie, feriali con grandezza di cuore, con nobiltà d’animo, e farle con tenerezza, con leggerezza e sobria eleganza. Amare è dire all’altro, sempre: “Prima tu, poi io”. Amare è voler bene, è dire a ogni altro “tu”: “Prima il tuo bene, poi il mio”. Prima il tuo dolore, poi il mio. Prima la tua gioia, poi la mia. Amare è scrivere sulla roccia il bene che ricevo e sulla sabbia il bene che faccio. Così si vive veramente, e non ci si limita a sopravvivere. E così si arriva alla fine non a vivere da morti, ma a morire da vivi.
Infine permettetemi di fare un’ultima preghiera, indirizzata a Maria di Nazaret. “Santa Maria, Madre del Figlio di Dio, prega per noi nell’ora della nostra morte, e anche per noi, come per Silvia, il trapasso sarà un venire di nuovo alla luce, un ritrovarsi festoso di amici troppo a lungo separati. Sarà come sentire uno sguardo di madre riscaldare il volto. Sarà un ascoltare la tua voce che dice: <<Vieni, figlio mio. Vieni, figlia mia. Vieni, ti mostrerò l’otre del buon Pastore in cui tutte le tue lacrime sono state raccolte e sono diventate perle di luce. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni presto! L’inverno è finito, il tempo del canto è tornato. Ora nulla ti farà più male. Vieni alla festa, in cui non ci sarà mai più né lutto, né dolore, né pianto, ma solo pace e gioia nello Spirito Santo>>. Ed ora, Maria, fa’ presto. Corri subito da Silvia, portale il nostro bacio più tenero e il nostro più caldo abbraccio, e a nome nostro dille a gola spiegata: <<Ciao, Silvia!>>”.
Rimini, chiesa di s. Agostino, 22 giugno 2016
+ Francesco Lambiasi