In memoria di don Giuseppe Maioli
Omelia del Vescovo nel corso della celebrazione esequiale
“Questa è la volontà del Padre mio: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39). E’ un frammento del brano che ci è stato appena annunciato. Ed è il vangelo proclamato in tutte le lingue del mondo, proprio nel lezionario della santa Messa dell’ultimo giorno del pellegrinaggio terreno del nostro amatissimo fratello Giuseppe. A questo punto, sorelle e fratelli, ci tocca fare un doppio esercizio di traduzione: dobbiamo trasporre questo vangelo nel linguaggio della vita e traslare la vita nel lessico del vangelo. Così potremo scrivere un’altra pagina di quel “quinto evangelo” che Gesù vuole redigere a più mani: le sue e le nostre. Mi faccio perciò aiutare da don Giuseppe a imbastire questa omelia che vorrei fosse più sua che mia.
1. La buona notizia recapitataci dal quarto vangelo che abbiamo ascoltato poco fa è la più bella, la più incredibile e sorprendente che ci potesse venire comunicata questa mattina. La volontà del Padre per la quale Gesù si è giocata l’intera esistenza non è una inesorabile condanna a morte per noi suoi figli amati, scelti e chiamati, ma è l’esuberante fioritura della nostra vita. Ma allora perché siamo qui oggi a piangere per la morte di questo fratello che ci è stato e ci sarà per sempre tanto caro? Perché il Signore non ha ascoltato la preghiera che gli abbiamo rivolto per la sua guarigione? In molti avevamo chiesto la grazia per un pieno, pronto ristabilimento della sua salute, e abbiamo affidato questa grazia alla preghiera di don Giussani e del nostro don Oreste, ma lui ci diceva: “Non chiediamo al Signore di fare la nostra volontà. Chiediamogli la grazia di essere capaci di fare la sua. Qualunque essa sia”. E qui occorre notare che questa scheggia del testamento spirituale di don Giuseppe fa rima baciata con il testamento di Maria alle nozze di Cana: “Qualunque cosa (mio Figlio) vi dirà, voi fatela” (Gv 2,5).
Ma l’incondizionato compimento della volontà di Dio don Giuseppe non l’ha desiderato solo nella fase terminale della sua vita terrena. E’ stato piuttosto il cantus firmus di tutto il suo percorso. Ecco cosa scriveva al vescovo Mariano in data 8 dicembre 1995. “Eccellenza, confermo per iscritto la mia disponibilità al trasferimento nella parrocchia di S. Ermete. E’ una conferma che faccio volentieri, perché ho sempre pensato che l’obbedienza al Vescovo sia una condizione necessaria al cammino verso la santità. Prego il Signore che quanto si è realizzato a S. Martino in questi anni, possa continuare indipendentemente da me“.
Un messaggio di così limpida, gratuita disponibilità ad orientare la bussola del proprio cammino sulla stella polare della volontà di Dio, il nostro “Don” l’aveva espresso in una geniale versione musicata del Salmo 127, ancora oggia cantata in tanti campi-scuola: “Se il Signore non costruisce la città / invano noi mettiamo pietra su pietra. / Se la nostra strada non fosse la sua strada/ invano camminiamo, camminiamo insieme”.
Anch’io posso dare una testimonianza di come don Giuseppe abbia misurato fino all’ultimo il “peso” del suo apostolato non con la bilancia dell’efficienza organizzativa, ma unicamente con il parametro della fede. In uno degli ultimi giorni della sua degenza in ospedale, mi raccontava che Bruno, suo compagno di stanza, il giorno in cui veniva dimesso, rivolgendosi a don Giuseppe gli diceva: “Era scritto nel disegno di Dio che io venissi ricoverato qui, proprio in questa camera e proprio in questi giorni. C’ero venuto arrabbiato con Dio. Ora ne esco pacificato con il Signore e con il mondo. Caro Don, tu mi hai cambiato la vita”. E don Giuseppe commentava grato e commosso: “Fosse stato anche per uno solo, la mia vita e il ministero sacerdotale ne sarebbero valsa la pena”.
2. Don Giuseppe Maioli era stato ordinato sacerdote per la nostra Chiesa, nel giorno del suo onomastico, nel 1971. Membro attivo di Comunione e Liberazione fin alle origini del movimento, non si sentiva sdoppiato tra diocesi e CL. Era amante della montagna e della pittura, della musica e del bel canto. Da due anni don Giuseppe aveva dovuto fare i conti con una grave malattia, un tumore che non lasciava scampo. E lui l’ha vissuto in piena, consapevole attesa: come l’offertorio della Messa, come la consacrazione che sigilla una intera esistenza.
Di don Giuseppe quando si è detto prete, si è detto tutto. No, non era un clericale: era proprio un prete-prete. Lo era con tutto se stesso: mite, tenace, trasparente e innamorato, forte e tenerissimo. Aveva capito che per amare le persone, bisogna imparare a perdere. Per questo voleva bene a tutti, senza mai legare nessuno a sé. Ed era contento. Spesso diceva: “Non saprei immaginarmi diverso da quello che sono”. Che miracolo, un prete contento! Domenica scorsa ho concelebrato la Messa con lui. Prima di cominciare siamo rimasti da soli per un minuto. Gli ho chiesto: “Lo sai, vero, che per te questa è l’ultima Messa? Come la vuoi celebrare?”. Mi ha risposto con un lampo negli occhi: “Come la prima”. Dopo il vangelo – era quello della triplice domanda di Gesù a Simone di Giovanni: “Mi ami?” – quando gli ho spalmato le palme delle mani con l’olio degli infermi, mi sono sentito investito da ondate di profumo che venivano dal crisma della sua ordinazione. Alla fine ci ha lasciato il suo testamento: “Ogni volta che ho celebrato la Messa – era arrivato al suo 45.mo di ministero – mi sono sempre fermato sulle parole centrali: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. E calcando l’aggettivo “mio”, mi è sembrato volesse dire: In questo momento – non perché io sia bravo, ma perché il Signore mi ha scelto e amato – io sono tutt’uno con lui. Ho qui tra le mie mani la sua vita che diventa la mia, e la mia che diventa la sua”. L’Eucaristia fa della vita del prete un corpo donato, che continua a versare sangue…
Oggi riconosciamo che, alla fine, il miracolo c’è stato, e quale miracolo! Quello di non aver vissuto la morte come una disgrazia, uno scacco matto, un brutto incidente di percorso, ma come un incontro, un appuntamento atteso e sorprendente, come l’inizio di una festa senza fine. Un giorno mi aveva voluto confidare la sua preghiera. L’aveva imparata da una parrocchiana, tutta paralizzata: “Gesù, io sono tuo”. Ed era felice quando gli chiedevamo di farcela ripetere.
Ora che tutto è compiuto, chiediamo al Signore che, dopo averlo stretto nel suo abbraccio, quanto prima ce ne mandi almeno un altro, come lui.
Rimini, Chiesa della Riconciliazione, 16 aprile 2016
+ Francesco Lambiasi