Omelia del Vescovo nella Messa Crismale
Tra poco la nostra Cattedrale, come la casa di Betania, sarà invasa da un’ondata di profumo, sprigionato dal vaso del sacro crisma, ed è appunto per questo che la solenne liturgia in corso è detta “crismale”. Ma insieme alla consacrazione del crisma verranno benedetti anche l’olio degli infermi e quello dei catecumeni. Vorrei pertanto proporre un breve percorso, ritmato sui tre oli, contemplati rispettivamente come l’olio della compassione, l’olio del combattimento e l’olio della consacrazione.
- L’olio degli infermi o della compassione
Il primo olio ad essere benedetto è quello degli infermi. L’unzione degli infermi ridisegna il profilo di colui che si chiama ed è effettivamente Gesù, cioè “Dio-salva”, un Salvatore che parteggia per i vinti, i perduti, gli scartati. Infatti Gesù ha sofferto come soffriamo noi umani. Non ha spiegato accademicamente il mistero della sofferenza, ma ne ha accettato fino in fondo il carattere di scandalo e di calice amaro, nel naufragio dolce e fiducioso tra le braccia del Padre. Nato come rito di guarigione, non di morte, l’unzione è stata via via sempre più strettamente abbinata al viatico dei moribondi, finendo per diventare estrema unzione o unzione in extremis data. C’è voluto il Vaticano II per recuperare il nucleo essenziale di questo che, nella costellazione dei sacramenti cristiani, appare come un sacramento umile, e non ambisce certamente un rango di prima grandezza. Nella preghiera di benedizione che fra poco reciteremo, si chiede a Dio Padre che “quanti riceveranno l’unzione ottengano conforto nel corpo, nell’anima e nello spirito”. Il termine “conforto” – nel significato etimologico dell’essere-forti-con rinvia a una presenza del Signore che visita anche il dolore come luogo dell’incontro con lui e richiama una presenza della Chiesa come comunità di “coloro che hanno speranza” e perciò non abbandonano il malato nella sua crisi. L’effetto non va cercato in qualcosa di magico e di miracoloso, quanto piuttosto nella linea del coraggio e dell’impegno del malato stesso, sostenuto dalla solidarietà credente della comunità ecclesiale. Il cristiano intuisce che il ponte della vita si inarca oltre la nebbia della morte, nell’incrollabile certezza che Dio non protegge da ogni dolore, ma sorregge in ogni sofferenza. Oggi occorre riconoscere che il mondo contemporaneo ha enorme bisogno della “profezia” dell’unzione. La nostra società copre volentieri le realtà opache della malattia e della morte con una autentica “congiura del silenzio”; isola il malato in ospedali e in camere di rianimazione, in cui il singolo si sente un numero anonimo, sperduto, nonostante tutta la buona volontà del personale sanitario. Più in generale, dobbiamo ammettere che oggi è morta la compassione, il patire-con. Il vero male del nostro tempo è la “globalizzazione dell’indifferenza” alla sofferenza altrui. Ci siamo ormai assuefatti a vedere gente morire di fame, di freddo, per discriminazione o persecuzione. Chi ha pianto per le persone che erano sui barconi e sono annegati in mare? Chi ha pianto per le mamme che si sono visti morire i figli sotto i propri occhi? Sull’ultimo numero di Sempre uno scienziato ha affermato: “La ricerca scientifica testimonia che l’uomo preistorico era solidale” come conferma “il ritrovamento di scheletri di persone handicappate che non avrebbero potuto vivere senza l’aiuto della comunità”. Le pietre scartate sono e vanno riconosciute come le pietre angolari della nostra società. Per raggiungere questo obiettivo, c’è bisogno di mettere la propria spalla sotto la croce del fratello, ma anche dire di smettere di costruire croci a chi continua a farlo.
- L’olio dei catecumeni o del combattimento
L’olio dei catecumeni richiama il grande dono del catecumenato spirituale. Il recupero del catecumenato è una delle grandi riscoperte dell’ultimo Concilio. Oggi il Signore sta purificando le nostre comunità, che, pur in fase di progressiva riduzione numerica, stanno passando da parrocchie di praticanti a comunità di credenti. E’ ritornato il tempo delle conversioni: fioriscono qua e là persone che scoprono o riscoprono la fede da adulti. Si va quindi riattivando il grembo materno della Chiesa, la vergine-madre, che, fecondata dallo Spirito, genera nuovi figli per Dio Padre. Questo fenomeno provoca le nostre comunità a vivere e operare per uscire in missione: non basta far crescere la fede dei credenti; oggi è urgente far nascere o rinascere la fede in quanti non credono più o vivono come se non credessero. Inoltre occorre non trascurare il significato dell’unzione pre-battesimale con l’olio dei catecumeni, che richiama l’ineliminabile dimensione militante e agonistica della vita cristiana. In effetti, con il battesimo, rivestito di Cristo, il cristiano si impegna a rimanere sempre “in tenuta militante”, a indossare quelle forze carismatiche che Paolo chiama “armi di giustizia o della luce”. La vita cristiana è combattimento nel campo di una triplice dominante: la libidine del piacere, dell’avere, del potere. I nostri ambienti sembrano aver smarrito la grammatica di base del combattimento spirituale e si ritrovano incapaci di articolare una pedagogia ascetica e una “disciplina” interiore che permetta al discepolo di “assumere con generosità gli impegni della vita cristiana” (preghiera di benedizione sull’olio dei catecumeni).
- Il crisma o olio della consacrazione
Sostiamo un istante a meditare una frase che abbiamo ascoltato poco fa, tratta dall’Apocalisse: “Ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio e Padre”. Cosa significa una espressione del genere? Intanto dice una verità molto elementare, ma non ancora assimilata dalla nostra coscienza cristiana: e cioè che la dignità sacerdotale di Cristo non può essere sequestrata e monopolizzata da un gruppo di persone, poiché è tutto il popolo di Dio che continua il sacerdozio di Gesù. Vedete: questo pomeriggio non si celebra in nessuna altra chiesa. Solo in Cattedrale. Vescovo e presbiteri e diaconi attorno all’unico agnello pasquale. Consacrate e consacrati, suore, catechiste/i, ministri vari, a ridosso del presbiterio. Laici giunti da varie parti della nostra diocesi disposti non come spettatori nello stadio, ma come giocatori sul campo. Chiediamo al Signore che oggi ci faccia leccare le labbra nel gustare “il piacere di essere popolo”, fatto di re e non di sovrani e di sudditi, di sacerdoti e non di chierici e di sagrestani, di profeti e non di cattedratici e di portaborse (EG 268).
A questo punto, non vi sembri contraddittorio, proprio nel momento in cui ho appena finito di parlare della dimensione sacerdotale di tutto il popolo santo di Dio, che io concentri il discorso su noi pastori, su di me vescovo e voi preti. Ma oggi è il vostro compleanno, e non possiamo esimerci dal farvi gli auguri. Ve li depongo nel cuore auspicandovi di essere i preti che ci servono.
Ci servono preti feriti dallo sguardo d’amore di Gesù. Senza esporci ai raggi della sua misericordia, la nostra missione non avrebbe sufficienti garanzie né di successo né di durata. Senza un inossidabile legame di amicizia con Gesù che si traduce concretamente nello stare davanti ai suoi occhi per contemplarlo e lasciarci contemplare da lui (EG 264), saremmo inesorabilmente condannati alla frustrazione più sconfortante. Sì, senza adorazione non c’è missione.
Ci servono preti che vivono la mistica della comunione. E’ la mistica del “vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio” (EG 87). Ma se non viviamo questa mistica della comunità prima di tutto nel presbiterio, rischiamo di avere tra breve troppe parrocchie e poche comunità. Sì, senza comunione non c’è missione.
Ci servono preti che si fanno prossimi ai poveri e agli ultimi. Nella parola di Dio appena proclamata Gesù si fa un selfie, come colui che è mandato ad “evangelizzare i poveri”. Riconosciamo con gratitudine che i preti italiani hanno sul serio l’odore delle pecore, ma non possiamo dimenticare che anche noi siamo esposti alla seduzione della “mondanità spirituale” (EG 93ss), che ci fa pensare prima a noi stessi e poi agli altri, i più deboli e i meno dotati. Sì, non c’è missione senza conversione.
Ci servono preti che sanno anche dare fastidio. Anche qui la lezione della Gioia del Vangelo non può essere archiviata: “Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia” (n. 203). Ma noi non possiamo tacere. E se ci sono opinion leaders, intellettuali e politici che suonano i loro tromboni, noi non suoneremo le nostre campane, ma intrecceremo le nostre voci con quelle dei poveri per annunciare il Vangelo, per rinunciare a privilegi e posizioni di potere, per denunciare scandali e ingiustizie, a cominciare da casa nostra. Sì, non c’è missione senza protezione dei poveri e senza promozione degli ultimi.
Preti, cresimate la comunità cristiana.
Laici, cresimate la città degli umani.
Consacrate e Consacrati, spandete nella Chiesa e nel mondo il buon profumo di Cristo.
Rimini, Basilica Cattedrale, 23 marzo 2016
+ Francesco Lambiasi