Intervento del Vescovo
Non sono sposato e non ho generato figli, ma vengo da una famiglia economicamente modesta, eppure affettivamente e spiritualmente molto ricca, anche culturalmente, nel senso di comportamenti e di valori. Comunque non la cambierei con nessun’altra al mondo. E’ da questa che ho imparato a diventare uomo e cristiano. Ho imparato che l’egoismo è il male più grande e che la fortuna più favolosa nella vita è l’amore. Non era, la nostra, una famiglia perfetta, né al “Mulino bianco”, ma bella sì. Bella perché normale, con inevitabili limiti e carenze. Ma ho imparato a distinguere la luce dalle ombre. Ho imparato a “non gettare l’acqua sporca con tutto il bambino”. Ho imparato che “l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re”. Che una cosa non è buona perché la voglio, ma la voglio perché è buona.
Ho imparato che amare in famiglia è puntare su una vetta alta ed esigente, ma affascinante. E’ la vetta dell’ideale di arrivare a dire da parte della sposa allo sposo e viceversa, come da parte di entrambi, mamma e papà, verso il figlio o la figlia, non: “Ti amo perché ho bisogno di te”, ma “Ho bisogno di te perché ti amo”. Ho imparato da papà e mamma – da ciascuno di loro in modo diverso, perché diversi tra di loro ma complementari – che l’amore deve essere forte e tenero. Perché la fortezza senza tenerezza si raffredda e si tramuta in durezza. E la tenerezza senza fortezza scade a tenerume.
Ho scelto la strada della verginità nel celibato non per disistima del matrimonio e della famiglia, ma, al contrario, per condividere in una famiglia più grande una fraternità e una paternità spirituale aperta a tutti. San Paolo raccomandava al giovane Timoteo di amare “gli anziani come padri, le donne anziane come madri, le più giovani come sorelle e i più giovani come fratelli”. Da prete e da vescovo, parlando con fidanzati e genitori, mi viene spesso da dire che ho rinunciato a formarmi una famiglia per aiutare tutti loro a fare famiglia.
Torno ai bambini: credo che ognuno di loro sia un dono, non un prodotto. E perciò ritengo che non si possa parlare di un diritto al o sul bambino, ma del bambino: di essere riconosciuto, accolto, compreso dalla madre e dal padre; di godere di una sicurezza e stabilità affettiva per scoprire la propria identità; di venire educato in una scuola che rispetti gli orientamenti religiosi e morali delle rispettive famiglie e sia aperta a un costruttivo pluralismo.
Mi fa male vedere che l’Italia è il secondo paese al mondo con il più basso indice di crescita demografica. Come pure mi rattrista constatare che lo Stato fa poco, pochissimo per onorare l’impegno costituzionale di sostenere le famiglie, soprattutto le più povere, che spesso sono anche le più numerose di figli. Anche come Chiesa possiamo e dobbiamo fare di più, molto di più. Perché la famiglia è la più esperta “coltivatrice diretta” dell’albero del futuro.
Rimini, 20 gennaio 2016
+ Francesco Lambiasi