1. Si è fatta terra bruciata attorno a Gesù. Come è potuto accadere, nel giro di poche ore, un capovolgimento tanto fulmineo e altrettanto catastrofico? Eppure, appena la sera precedente, dopo l’evento strabiliante dei pani miracolosamente distribuiti a una folla oceanica, la colonnina dell’entusiasmo popolare aveva scalato temperature ad alta tensione, al punto che stavano per venire a prenderlo per farlo re. Poi all’indomani, nella sinagoga di Cafarnao, Gesù si era inoltrato in un discorso ardito sul pane di vita, ma i tantissimi presenti avevano cominciato a punteggiare quelle parole “dure e scandalose” con ricorrenti, ostili mugugni: “Come si permette questo tale di venirci a dire: Io sono disceso dal cielo? Ma se noi conosciamo le sue generalità, se lo sanno tutti che viene da Nazaret, come fa a dire che è disceso dal cielo? Allora avevano ragione i nostri padri quando dicevano: Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?“. Alla fine, la mormorazione dei Giudei era sfociata in una contestazione aspra e sfrontata: “Come può costui darci addirittura la sua carne da mangiare?“. Così le fiamme di quella astiosa protesta avevano finito per lambire la cerchia dei suoi seguaci, tanto che – annota sconsolato l’evangelista – “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”. Ora siamo al “dunque”: attorno a Gesù sono rimasti solo i Dodici. Il momento è drammatico. A questo punto scatta sulle labbra del Maestro la domanda più bruciante di tutto il vangelo: “Volete andarvene anche voi?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu sei il Santo di Dio. Tu solo hai parole di vita eterna”.
2. In questa confessione di Pietro ci viene offerta la vera immagine di Gesù e, di riflesso, quella del discepolo. Gesù è il Santo di Dio, l’unico volto umano segnato dalla massima vicinanza al volto divino del Padre, una vicinanza talmente stretta da essere esattamente coincidente con la reale immagine di Dio. Noi, come Adamo, proiettiamo su Dio l’ombra lunga del nostro io malato ed egoista, con la sua insaziabile brama di avere, di potere, di apparire. Il Figlio di Dio invece ha il volto dell’amore: è condivisione generosa, e umile, gratuito servizio. Noi ci fabbrichiamo l’immagine di un dio che pretende da noi sacrifici, onori e gloria; Gesù invece si spoglia della sua gloria, assume la condizione di servo e incarna in sé l’immagine di un Dio che sacrifica se stesso per noi. Noi preferiamo pensare che, se Dio venisse quaggiù, ci toccherebbe toglierci il pane di bocca per dargli da mangiare. Gesù invece ci rivela il volto del Dio vivo e vero, che non solo ci dona il pane, ma si fa lui stesso pane di vita per placare i morsi del nostro cuore inquieto, questo crepaccio assetato di Cielo, e sempre affamato del totalmente Altro, del perennemente Oltre. Gesù è “l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano” (Francesco).
3. Ecco allora cosa significa credere in Gesù, che si fa nostro pane: significa fare piazza pulita di tutte le immagini deviate di Dio; significa farci aiutare da Gesù a non sbagliarci su Dio. Perché “Dio nessuno lo ha visto mai”. Solo Gesù lo ha visto ed è venuto dal cielo per raccontarcelo, per dirci con parole di vita eterna che Dio è tutto fatto d’amore. Perciò credere non significa trangugiare un imparaticcio di formule astruse o ingurgitare un ammasso di idee gelide e astratte su Dio; non significa osservare una minutaglia di rigidi divieti e di eccentrici precetti. La fede è l’esperienza di un incontro con la persona di Gesù e si trasmette “nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma” (Francesco).
E questo significa essere discepoli di Gesù, il “Santo di Dio”, ossia il diverso, colui che sfugge ai nostri schemi, appunto perché disceso dal cielo. Oggi significa appartenere a una minoranza socialmente diversa, che pensa, parla e opera diversamente dalla maggioranza. Ciò espone all’espulsione, al mobbing, alla persecuzione, e per sfuggire a queste minacce, i credenti corrono due rischi: o di lasciarsi omologare e di rinunciare alla diversità “cristiana”. Oppure di formare dei piccoli ghetti, chiusi in autodifesa, che assumono la logica della setta: isolata, rannicchiata, autocentrata. Credere invece significa “assimilare” la persona di Gesù, per essere il pugno di lievito che fa fermentare la pasta della società, per essere il sale che non rimane nella saliera, ma dà sapore a tutta la vita. Non autoreferenzialità, dunque, ma missione e nuova evangelizzazione, come continua a martellare il Papa: “Usciamo, usciamo per offrire a tutti la gioia del Vangelo“.
Rimini, MEETING, 23 agosto 2015
+ Francesco Lambiasi