Quasi 60 anni fa, e precisamente nel 1958, l’allora ministro della Pubblica Istruzione, Aldo Moro, introduceva nella scuola secondaria una nuova disciplina: l’educazione civica, e giustificava tale decisione in questi termini: “Il campo dell’educazione civica, a differenza delle materie di studio, non può essere delimitato dalle nozioni, ma si pone su quel piano spirituale dove quel che non è scritto è più ampio di quello che è scritto”. Si evidenziava così il fine della scuola: non solo quello di istruire – ossia trasmettere conoscenze – ma educare, la cui etimologia allude all’immagine socratica dell’ostetrica che aiuta il bambino a nascere.
Oggi la scuola si trova ad affrontare una sfida complessa, che riguarda la sua stessa identità e i suoi obiettivi. Se fino a circa 40 anni fa essa aveva una fisionomia compatta, monolitica, non solo a livello strutturale, ma anche valoriale, oggi si registra il passaggio per cui a una estrema rigidezza, per reazione, è subentrata una estrema frammentazione. In un contesto segnato dallo slogan relativistico, per cui “ognuno ha la sua verità”, la scuola si è trasformata in una azienda in cui il vecchio preside è diventato un dirigente-manager, assorbito dal problema dei finanziamenti e da questioni amministrative; i docenti sono ridotti al ruolo di tecnici, che hanno solo il compito di dare istruzioni per l’uso degli strumenti, lasciando la questione dei fini ai loro clienti, gli studenti.
Ad aggravare la situazione, è l’esilio della questione del senso, nella sua duplice accezione di significato e di direzione. Se si arriva a dogmatizzare la convinzione che la scuola non possa e non debba insegnare dove si è diretti, ma che si debba limitare a dire come vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte, dove e come procurarsi gli anticorpi per reagire alla vertigine del nulla che vanifica ogni ricerca del vero, del bene, del giusto, del bello, e per combattere i virus delle ideologie del fondamentalismo terroristico? La domanda di senso è ineludibile, soprattutto oggi che la maggior parte delle persone cerca di schivarla anestetizzandosi con mille droghe, che non sono solo quelle definite tecnicamente tali.
Negli Orientamenti pastorali per il decennio in corso si legge: “L’insegnamento della religione cattolica permette agli alunni di affrontare le questioni inerenti il senso della vita e il valore della persona, alla luce della Bibbia e della tradizione cristiana” (EVBV 47). Pertanto non è solo questione di offrire alle giovani generazioni la possibilità e la passione di accedere al patrimonio storico, culturale e sociale del popolo italiano. A giustificare l’IRC è soprattutto la convinzione che “la dimensione religiosa è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita” (Benedetto XVI).
Che queste giornate di studio risveglino il sogno di una scuola “bella”, in cui ogni aula abbia almeno tre finestre: una sul passato, per attingere linfa dal patrimonio culturale della grande tradizione umanistica, italiana ed europea; una sul presente, per dare significato e direzione al viaggio nella vita; una sul futuro, per costruire una società del domani, che si possa definire veramente e integralmente umana. In questa triplice direzione l’IRC ha molto da ricevere e molto da
Rimini, 13 aprile 2015
+ Francesco Lambiasi