Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa Crismale
Il manifesto di Gesù: così è stato etichettato il discorso inaugurale, tenuto da Gesù nella sinagoga di Nazaret e selezionato da Luca con un originale ‘taglia-incolla’ per incorniciare la scena-madre del suo vangelo. L’evangelista Matteo invece ha privilegiato il brano delle beatitudini come ouverture dell’intera attività pubblica di Gesù, e lo ha inquadrato nell’ampio scenario di una ‘montagna’. E’ però interessante rilevare che sia nell’uno che nell’altro di questi discorsi programmatici, il primo messaggio riguardi precisamente i poveri: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, leggiamo in Matteo. E, secondo Luca, i primi destinatari, a cui il giovane Messia di Nazaret viene mandato dallo Spirito per portare loro il lieto annuncio, sono sempre, per l’appunto, i poveri. Bene, ora apriamo anche noi il terzo rotolo di Isaia e, con Gesù, insieme al profeta e all’evangelista, rileggiamo quelle parole accese che arrivano a noi, trascinandosi dentro la fiamma di due millenni e mezzo di storia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio“.
1. Carissimi presbiteri, diaconi, sorelle e fratelli consacrati, carissimi fedeli laici tutti, penso che capiti anche a voi ciò che puntualmente capita a me ogni anno che la liturgia ci ripropone il vangelo che abbiamo appena proclamato. Vi confesso che, nel riascoltarlo, mi sento percorrere la schiena da un brivido a pelle, e ripenso alla mia consacrazione battesimale e crismale. Poi ritorno con la tenacia della memoria e con la commozione del cuore al giorno della mia ordinazione sacerdotale, e poi ancora a quella episcopale. Quale cascata di unzione crismale: c’è da rimanerne letteralmente sommersi e inzuppati! Mi domando se non solo nello stemma episcopale, ma anche nei biglietti da visita tutti noi cristiani – proprio tutti e ciascuno – per il semplice fatto di essere stati consacrati nel battesimo, non dovremmo far stampare queste parole in cui è scolpito il nostro destino o, se volete, è inscritto il dna della nostra missione: mandati ad evangelizzare i poveri. Perché proprio questo è avvenuto nella consacrazione di base, quella del nostro battesimo: Cristo ci ha fatti cristi – cioè consacrati – e ci ha resi suoi apostoli, cioè missionari!
Permettetemi allora di riprendere parola per parola i tre segmenti della nostra carta di identità: mandati ad evangelizzare i poveri.
Mandati: sì, la missione non è un’autodestinazione. Noi non andiamo in missione per sfogare un’ansia da prestazione, per una nostra iniziativa, per conto nostro, ma per… “conto-Terzi”, per conto dei Tre membri della santa Trinità. Non vai, non vado in missione per smania di protagonismo, a titolo strettamente personale, a nome tuo o mio, ma “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Ora, se siamo mandati, non siamo però i “forzati della missione”: non siamo costretti ad uscire e ad andare. La missione non è una imposizione che ci schiaccia, o una minaccia che ci fulmina, o un subdolo ricatto che ci estorce il consenso. Lasciamoci afferrare dallo Spirito, che ci introduce nella sinagoga di Nazaret, dove è in corso la liturgia sinagogale del sabato. Apriamo bene gli occhi e teniamoli fissi su questo giovane rabbi che si è appena autoaccreditato come il Messia atteso, nel quale le Scritture trovano finalmente pieno compimento. E’ vero che il Padre lo ha mandato in missione, ma questa missione non gliel’ha affatto imposta contro la sua volontà. Il Dio di Gesù di Nazaret non è un Giove venale e fiscale, con il suo fascio di folgori saettanti tra le mani. Non è un “Padre-Padrone” incombente e ostile. Non è un despota nevrastenico e inflessibile, ma è e resta sempre il fortissimo, tenerissimo Abbà. Nel primo rotolo del profeta Isaia, quando si descrive la scena della vocazione del giovane profeta, si riporta la voce del Signore nel gran consiglio della corte celeste: “Chi manderò e chi andrà per me?”. E il profeta si slancia e si offre: “Eccomi, manda me!” (Is 6, 8s). Ma quanto si è verificato per Isaia in visione, per Gesù si avvera in pienezza, nella carne della sua persona, nella realtà della storia, quando, mandato dal Padre, si incarna e si immette nel grande fiume delle generazioni umane. Come si legge nella Lettera agli Ebrei:
“Entrando nel mondo Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Ebr 10,5-7).
Cari presbiteri, tra poco voi rinnoverete le promesse fatte il giorno dell’ordinazione nelle mani del vescovo e davanti al popolo santo di Dio. Permettetemi ora di ritornare sulla promessa dell’obbedienza. Rinunciando al mito dell’autoreferenzialità narcisista e spinti dall’amore di Cristo, quel giorno abbiamo promesso “filiale rispetto e obbedienza” al vescovo ordinante e ai suoi successori. E ci siamo impegnati, con l’aiuto di Dio, ad essere strumenti malleabili e disponibili, nelle mani di Cristo e della sua Chiesa, per un fecondo svolgimento del ministero, liberato da ogni eccesso di progettualità personalistica e da ogni morboso e compulsivo ritorno su di sé. La destinazione per un incarico ministeriale non è l’attribuzione di un compito da svolgere individualisticamente, ma una partecipazione alla missione del vescovo entro il presbiterio diocesano. Che il Signore vi aiuti a non pentirvi mai di questa promessa e ad essere sempre felici di poterla rinnovare ad ogni nuova missione che il vescovo vi dovrà affidare!
2. Mandati ad evangelizzare. Diciamocelo in tutta sincerità. Noi tutti – preti, diaconi, consacrati, laici – siamo per lo più cresciuti con l’idea di dover conservare la fede seminata in noi nel battesimo. Era l’idea della cristianità. I preti, in particolare, dovevano dedicarsi alla “cura delle anime” e a difendere la fede. Dovevano farla crescere e maturare, e a questo si provvedeva con il catechismo, con i sacramenti e le devozioni. Ma oggi la questione non è tanto quella di far crescere la fede, ma, più radicalmente, di farla nascere, anzi – cosa ancora più difficile – di farla rinascere. Per questo non basta una pastorale di conservazione; ne occorre una di evangelizzazione, alla quale noi, in genere, non siamo stati preparati e formati. Ma tutto questo non deve causarci né ansia né angoscia. Oggi è tornato il tempo di seminare. E’ tornato il tempo di annunciare l’essenziale del vangelo. L’essenziale non è una vaga idea, non è un sia pur nobile valore – come il sacro trinomio della rivoluzione francese: liberté-égalité-fraternité – non è neanche una fredda dottrina o una serie di riti astrusi e complicati. E’ il kerygma, è una persona – Gesù di Nazaret – e una persona non la si studia, ma la si incontra; non la si analizza in laboratorio, ma la si incrocia sui sentieri accidentati e fangosi della vita. Tutto questo richiede, prima di tutto in noi pastori, una conversione certamente dolorosa, ma altrettanto feconda: quella di ricordarci che o siamo missionari o siamo dimissionari. O diventiamo ardenti evangelizzatori o ci riduciamo a freddi professionisti del sacro. O ci trasformiamo in discepoli innamorati di Gesù o ci deformiamo in soffocanti propagandisti di una ideologia più o meno devota. O ci convertiamo per diventare accesi testimoni del Vangelo, oppure ci pervertiamo fino a scadere ad impettiti burocrati di una azienda religiosa.
Ma oggi c’è una consolante novità: nella fase attuale di quella che viene chiamata “nuova evangelizzazione”, è rifiorita nei laici la consapevolezza di essere non più solo i destinatari e i semplici fruitori dell’insegnamento offerto dai pastori, e neanche i meri collaboratori del clero, ma i nuovi protagonisti della nuova evangelizzazione. E’ vero: voi laici non siete truppe di riserva. Non siete una enorme sacca di ‘entropia’, di energia intrasformabile. Siete piuttosto una specie di “energia nucleare” della Chiesa, sul piano spirituale. Un laico raggiunto dal Vangelo, vivendo accanto ad altri, può ‘contagiare’ altri due, questi altri quattro, e via di seguito in scala esponenziale, proprio come nella fissione nucleare. E siccome voi laici battezzati, nella sola diocesi di Rimini siete ben 326.285 su un totale di 354.642 abitanti, se anche non dico il 10%, ma anche solo il 3% di questi fossero cristiani convinti e ferventi, gioiosi e contagiosi della loro fede, avremmo pur sempre una schiera di ben 9720 evangelizzatori. Allora sì che potremmo stare sereni: la fede a Rimini non solo non si spegnerà, ma incendierà altri cuori e farà nascere tante altre vocazioni al sacerdozio, al diaconato, alla vita consacrata, contemplativa e missionaria.
3. Mandati ad evangelizzare i poveri. Mi pongo due domande. La prima: cosa significa evangelizzare i poveri? Significa certamente amare i poveri: amare Cristo in loro e loro in Cristo. E amarli significa rispettarli e riconoscere la loro dignità. Significa anche chiedere ad essi perdono, per non riuscire ad andare loro incontro veramente e con gioia; e chiedere perdono per le distanze che nonostante tutto manteniamo tra noi e loro. Evangelizzare i poveri significa anche soccorrere i poveri, non semplicemente compatirli, perché – ci ricorda san Giacomo – la compassione è come la fede: “senza le opere è morta” (Gc 2,17). Ma evangelizzare i poveri significa concretamente farsi poveri. Come Gesù, che “da ricco che era, si fece povero per arricchirci con la sua povertà” (2Cor 8,9). E farsi poveri – in particolare per noi Chiesa diocesana e per voi religiose e religiosi in questo Anno della Vita Consacrata – significa anche convertire a loro favore tante nostre strutture. A questo proposito, mi domando se, in occasione del Giubileo straordinario, indetto da papa Francesco, che coincide provvidenzialmente con l’anno della nostra Missione straordinaria, non dovremmo interrogarci su quali segni noi possiamo offrire per diventare una Chiesa “povera e di poveri”, una Chiesa per i poveri e con i poveri.
Ma c’è un’altra domanda che continua a pungermi da tempo: cosa significa lasciarsi evangelizzare dai poveri, come spesso ci ripete lo stesso papa Francesco? Vi confesso che su questa domanda non ho ancora le idee chiare. Vorrei allora chiedervi la carità di aiutarmi, anzi di aiutarci a rispondere, come presbiterio, come comunità diaconale, come associazioni di vita consacrata, come aggregazioni laicali, come parrocchie e comunità pastorali, come semplici fedeli laici, in particolare voi dell’APGXXIII.
Fratelli e sorelle, prepariamoci ora ad accogliere il rinnovo delle promesse sacerdotali, con tanta gratitudine verso tutti i nostri presbiteri, soprattutto coloro che stanno affrontando la prova della malattia con una fede che ci commuove e ci contagia.
Rimini, Basilica Cattedrale, 1 aprile 2015
+ Francesco Lambiasi