Omelia del Vescovo nella Messa per il Consiglio Nazionale dell’ACI
Sono passati duemila anni dalla storia di Gesù di Nazaret, e noi cristiani proviamo ancora non poca fatica a fare piazza pulita di tante figure deviate e malsane di Dio. Il dio della rappresaglia, che ti apposta dietro la curva per coglierti in fallo e fartela pagare cara. Il dio del ricatto, che ti dà quello che gli chiedi se tu gli dai quello che vuole; che ti gratifica se lo servi, ma se non osservi la sua legge e ti ribelli alla sua sovrana volontà, ti giudica a “tolleranza zero”. Il dio del merito, che ti premia se fai il bravo, ma ti castiga, inflessibile e incombente, se ti permetti di ledere la sua eccelsa maestà. Queste false immagini di Dio non solo non riescono a cogliere il vangelo – la buona notizia di Gesù – nel vangelo della croce, ma addirittura leggono la croce alla rovescia e la riducono ad antivangelo: a notizia di morte anziché di vita, a messaggio di violenza anziché di liberazione, a orribile segno di spietata punizione divina anziché immagine trasparente di un amore smisurato, eccessivo, eccedente.
1. Dobbiamo ritornare alla scuola di Israele. La pagina conclusiva del libro delle Cronache, scritta verso il III secolo a. C. (prima lettura) ci propone una riflessione sapienziale di Israele sul suo passato. Alla luce dell’alleanza il popolo ebreo riconosce la vera causa dell’esilio babilonese: non una sfortunata sconfitta militare, ma l’esito della chiusura ostinata di un popolo “di dura cervice”, inguaribilmente sordo ai tenaci e teneri richiami del suo Dio. Proprio perché ha voltato le spalle al Signore, perché ha tradito l’alleanza e trasgredito la sua legge, Israele ha sperimentato il fallimento e un’amara desolazione. Ma anche l’umiliazione più cocente – la distruzione di Gerusalemme – non rappresenta una irrimediabile catastrofe, perché Dio è misericordioso ed eternamente fedele all’alleanza. La dura lezione dell’esilio permette a Israele di ritornare in sé e lascia la porta aperta alla speranza in una vita nuova.
Questa pagina ci parla. Ci obbliga a compiere una operazione onerosa e tutt’altro che indolore, ma pure indispensabile. Ci aiuta ad evitare attentamente le trappole di illusioni pericolose, di comodi alibi e di miraggi abbaglianti. Come l’attribuire direttamente all’intervento di Dio questo o quell’avvenimento, identificando con eccessiva fretta e altrettanta ingenuità un presunto o sedicente “uomo della Provvidenza” che abbia la bacchetta magica per risolvere d’incanto i nostri problemi. Oppure servire a Dio il conto delle omissioni dell’uomo e addebitare a suo carico ciò che invece è da ricondurre alle nostre o altrui responsabilità: si pensi a certe calamità naturali. O ancora rassegnarsi a un cieco destino che guiderebbe capricciosamente le vicende del mondo.
2. Questi rischi non devono indurci a gettare la spugna o sottrarci a una lettura credente della storia. Per entrare nella prospettiva della fede cristiana il vangelo ci offre la chiave infallibile della croce. Ma ritorna la domanda: non dice, la croce, una morte orribile e infamante, una scandalosa esposizione al pubblico ludibrio, un castigo sadico, brutalmente disumano? Dobbiamo riconoscerlo: non è facile abbandonare le abituali rappresentazioni di un Dio imbattibile vincitore dei suoi nemici, e accettare che suo Figlio venga a noi nelle vesti lacerate e sporche di sangue di un povero innocente, ingiustamente condannato e giustiziato, abbandonato da tutti, in balia dei potenti del tempo? Non è facile accogliere una salvezza che non si compie con l’implacabile vendetta contro carnefici e mandanti, ma con l’offerta gratuita del più umile e disarmato amore, anche se respinto e calpestato. Chi si attende un Dio affannato nell’insediare tribunali e accanito istruire processi, sempre pronto a fulminare nemici e ribelli e ad incenerire gli uccisori di suo Figlio, si sbaglia, e davvero di grosso. Chi si attende un Messia elevato sul podio del vincitore o installato sul trono imperiale anziché innalzato sul patibolo della croce, resterà ineluttabilmente deluso.
Eppure è questo il paradosso cristiano: Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito. Ecco l’evento insuperabile del più insuperabile amore. Ecco la notizia più imprevedibile e strabiliante: Dio ha tanto amato il mondo, ma il suo amore non è finito nel passato ormai sepolto di quel 14 di nisan dell’anno 30. Quell’amore continua a pulsare e fiorisce nell’oggi e non scomparirà mai. Il cuore di Dio è un vulcano mai spento, ma tenacemente sveglio e attivo.
3. Domanda: ma quanto ci ha amato, ci ama e ci amerà questo Dio? La risposta è “tanto”. Ma tanto quanto? Tanto da dare suo Figlio. Ecco il verbo più generoso e concreto per tradurre il verbo amare: è il verbo dare. Un verbo fatto di cuore, di mani e di braccia: di un cuore totalmente dimentico di sé, di mani immancabilmente aperte e di braccia instancabilmente spalancate. Sono il cuore, le mani, le braccia del Figlio di Dio, il quale accetta il rischio di tutti coloro che amano: il rischio di venire rifiutati, incompresi, definitivamente respinti. Per questo il Figlio è disposto anche a farsi giudicare e giustiziare, pur di mostrare quanto a Dio stia a cuore questo nostro povero mondo. Non un Dio, dunque, che esige o colpisce la vita altrui, ma che dona la sua, a costo di patimenti atroci e di una morte straziante. Possiamo allora fare nostro il fiotto di gratitudine che attraversa i versetti della seconda lettura: Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo (Ef 2,4s).
Ci resta un’ultima domanda: qual è allora la risposta a tanto amore? Ci verrebbe da dire che la prima risposta è quella di amare Dio. Ma questa viene dopo. Oppure quella di amare i fratelli. Ma anche questa viene dopo. No, noi non siamo cristiani perché amiamo Dio, ma perché crediamo che Dio ci ha amati e ci ama sempre per primo. La risposta a tanto amore, a un amore tanto in-credibile, è la fede. “Chiunque crede in lui, non va perduto” (Gv 3,16). “Per grazia infatti siamo salvi mediante la fede” (Ef 2,8). Credere di essere gratuitamente amati. Sentirci ostinatamente, dolcemente amati: questa è la risposta. Ognuno di noi è il figlio prediletto del Padre. Ognuno di noi è amato dal Padre tanto quanto suo Figlio, l’Amato. Per noi cristiani il verbo amare comincia al passivo – “sei amato” – e termina all’attivo: “amerai”. Questo è il vangelo della croce, la buona notizia della nostra inossidabile felicità. Una notizia da accogliere, da custodire, da comunicare.
Rimini, Chiesa di s. Maria Ausiliatrice, 15 marzo 2015
+ Francesco Lambiasi