“Attendere” e “accogliere” Gesù, come il vecchio Simeone
Omelia del Vescovo per la Giornata della vita consacrata
Trasferiamoci idealmente nell’atrio esterno del tempio di Gerusalemme. Qui è in corso un evento straordinario, eppure così umano, così toccante: un vecchio che si sta congedando dalla vita accoglie tra le braccia un bambino di quaranta giorni, un bocciolo di fiore appena spuntato. “Il vecchio porta il bambino, e il bambino sostiene il vecchio”, canta la liturgia. Letta in trasparenza di fede, la figura di Simeone appare come l’immagine del giusto dell’Antico Testamento che si apre all’accoglienza del Nuovo, rappresentato da Gesù. Nella sequenza evangelica pennellata da Luca, il vecchio, se non è il centro, è però centrale. Letterariamente parlando, occupa quasi l’intera scena, come attesta il grappolo di versetti a lui dedicati: ben dieci su un totale di diciassette, a fronte dei quattro destinati rispettivamente a Gesù, a Maria e Giuseppe, mentre appena tre vengono riservati alla profetessa Anna.
- Aspettava la consolazione d’Israele
Puntiamo allora i nostri occhi sul vecchio Simeone, che ha speso tutti i suoi giorni nell’attesa e ormai può finalmente morire sereno e appagato: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. Prima che Simeone scivoli di nuovo nell’ombra da cui è appena uscito, ci domandiamo: cosa dice la sua storia a voi, sorelle e fratelli consacrati? Provo a rispondere evidenziando due verbi di quelli a lui attribuiti da san Luca: “aspettava la consolazione d’Israele”, “accolse (il bambino) tra le braccia”.
Primo verbo: aspettare. Cosa si aspettava Simeone dalla vita? Non certo di coronare il sogno di una strabiliante affermazione personale della sua esistenza, condotta per lo più nell’ombra, come è la vita dei poveri che quasi ti chiedono scusa di stare al mondo. Simeone non smaniava per una sua stupefacente autorealizzazione e neanche si struggeva per vedere finalmente spuntare l’aurora della propria, esclusiva consolazione. No, Simeone viene qualificato dall’evangelista con due aggettivi: “giusto e pio”, tipici del cliché usuale per definire il “santo” dell’AT. In cima a tutte le aspettative di questo vecchio retto e pieno di fede c’era unicamente il sogno più ardente tra tutti i sogni possibili per un ebreo credente: vedere con i propri occhi la “consolazione d’Israele”, assistere di persona alla venuta del Messia del Signore. Ecco Simeone: non un vecchio accartocciato su se stesso, tutto occupato a leccarsi le ferite, ma un autentico credente, totalmente decentrato, instancabilmente aperto alle sorprese di Dio, sempre pronto a lasciarsi scrivere il programma dal suo santo Spirito.
Ecco chi siete voi, sorelle e fratelli carissimi: gente che sa aspettare, con fiducia disarmata e inossidabile tenacia, il compimento della promessa di Dio; persone che sanno attendere – letteralmente tendere a – l’incontro con il Signore Gesù, colui che era, che è, e che viene. Viene sempre e ci porta la salvezza “preparata davanti a tutti i popoli”. Oggi la società in cui viviamo rischia di morire per asfissia: l’aria è intossicata dal virus pestifero dell’autoreferenzialità. Ci manca il respiro. Quanto è triste e deludente l’attesa di chi si è autocostretto ad aspettare, non la consolazione di Dio, ma solo il compimento del proprio Io. Ma noi pastori, voi consacrate/i, voi fedeli laici abbiamo ricevuto dal Signore Gesù una sola consegna, la stessa che ha dato agli apostoli prima di salire al cielo: “ordinò loro di attendere l’adempimento della promessa del Padre… Riceverete la forza dello Spirito Santo” (At 1,4.8). Quasi a dire: non fate molti piani, non programmate troppo, non preoccupatevi troppo del vostro futuro, perché Dio ha i suoi piani, che persegue con la sua invincibile strategia. Pensate piuttosto ad accogliere la forza e la direzione che verrà dal vento dello Spirito, che soffia dove vuole. Se voi saprete aspettare tempi, modi e forme del compimento della promessa di Dio, potrete vedere con i vostri occhi una salvezza che non è vostra, perché voi non potete salvare neppure voi stessi.
Le medesime parole il Risorto le rivolge a noi oggi. Ci dice: Tu non salvi proprio nessuno, perché sei carne fragile e precaria. Ma se non ti stanchi di aspettare, se ogni giorno sarai disponibile a ricevere il dono sorprendente e l’esuberante grazia dello Spirito, potrai essere testimone della salvezza che Dio ha operato in Gesù. Sorelle e fratelli consacrati, siate gli specialisti dell’attesa! “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!” (Sal 95,7s). Oggi il Signore vi fa udire la sua voce e dice a voi di dire a noi tutti: Lasciatevi abitare dagli stessi sentimenti di Cristo Gesù, lasciatevi possedere dal suo Spirito, lasciatevi smuovere dalla forza irrefrenabile del suo vento, dispiegate le vostre vele e lasciatevi condurre sulle sue rotte.
- Accolse (il bambino) tra le braccia
Chissà quale brivido di tenerezza deve aver provato Simeone, quando Maria ha adagiato il piccolo Gesù tra le braccia nodose e tremanti di quel santo vecchio. In quel fagottino palpitante di vita era contenuta corporalmente tutta la pienezza della bontà misericordiosa del nostro Dio.
In una società come la nostra, divorata dal mito del possesso, voi consacrati ci testimoniate la bellezza della povertà, intesa come espropriazione di sé per poter accogliere in sé l’altro: il fratello, e il totalmente Altro: Dio. Accogliere: è il secondo verbo di Simeone. Amare non è tanto prendere né tantomeno afferrare, ma, appunto, accogliere. Non è prima di tutto fare, ma ricevere. Non è mai invadere l’altro, ma aprirsi a lui e custodirlo come un dono pregiato. Da qui nasce la fraternità: la luce dello Spirito permette di guardarsi e di relazionarsi da fratelli. Con la vostra vita, con la vita delle vostre comunità, voi, sorelle e fratelli, ci dite con fatti di vangelo che la vita fraterna è bella e possibile. Ditecelo, per carità, con voce più chiara, più forte e concorde! Di tutti i miracoli, prodigi e segni, questo è senza dubbio il più ‘scioccante’: persone che non si conoscono, eppure si comprendono e parlano la stessa lingua della carità, mettendo in comune i loro beni. La fraternità è il vero prodigio della Pentecoste, e poiché la Pentecoste è ancora in corso, la fraternità mostra ancora oggi il vero volto della Chiesa. Il “guarda come si vogliono bene” rimane la più sicura e convincente apologetica anche ai nostri tempi. E risulta la prova più tangibile e persuasiva della singolarità del fatto cristiano e della realtà più profonda della Chiesa.
Siamo in cammino verso la missione straordinaria. Custodire e coltivare la fraternità è il primo e più sicuro apporto che voi, persone e comunità di vita consacrata, potete procurare ad una Chiesa, la nostra, che si vuole in stato di missione permanente. In effetti il frutto più prezioso dello Spirito è la costruzione di comunità veramente fraterne, che siano autentiche scuole di comunione ed fruttuosi laboratori di missione. La fraternità è il frutto più missionario di tutti.
Vi prego, sorelle e fratelli, assicurateci questo dono, quanto mai necessario per la nostra diocesi, nel momento in cui vogliamo propiziare la nascita di piccole comunità missionarie. Vi rinnovo viva gratitudine per quello che già siete e vi incoraggio ad esserlo ogni giorno di più. Con papa Francesco, vi ripeto: Rallegratevi! Svegliate il mondo! Scrutate la storia, guardando oltre le apparenze spesso contraddittorie della vita! E siate benedetti oggi e sempre.
Che il Signore conceda anche a noi di poter dire alla fine dei nostri poveri, celeri giorni, come il vecchio Simeone: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 2 febbraio 2015
+ Francesco Lambiasi