Il Verbo incarnato: parola, luce, vita

Omelia del Vescovo nella Messa del Giorno di Natale

Con l’inno al Verbo incarnato, che fa da prologo al suo Vangelo, l’evangelista Giovanni ci conduce oltre la storia umana, nel mistero stesso di Dio. E ci dice che il Verbo – quella Parola che era presso Dio ed era Dio stesso- si è fatto carne: è venuto a trovarci, ma non ha sgomitato per rivendicare diritti di precedenza; si è messo in fila e non è passato davanti a nessuno. Per tracciare il profilo di Gesù-Verbo e il percorso della sua vicenda – il cammino del Verbo per divenire carne – il quarto vangelo enuncia tre proposizioni limpide e solenni: “in principio c’era Colui che è la Parola”; “in lui era la vita”; “e la vita era la luce degli uomini”. Verbo, Luce, Vita: sono parole dense che toccano il midollo della nostra esistenza. E ci offrono il tracciato per contemplare l’evento del Natale.

  1. Gesù, parola per il nostro silenzio

         Ognuno di noi attraversa il silenzio. Talvolta lo cerca, altre volte lo subisce, in altre situazioni addirittura lo teme. I nostri silenzi nascondono spesso solitudini invincibili e ferite difficilmente rimarginabili. Le chiacchiere ci confondono, i rumori ci stordiscono, gli svaghi ci svuotano. Dal cuore sale così l’invocazione di una parola carica d’amore. Quella parola è Gesù. Abbiamo ascoltato dalla Lettera agli Ebrei (1,1-2):

“Nei tempi passati Dio parlò molte volte e in molti modi ai nostri padri, per mezzo          dei profeti. Ora invece, in questi tempi che sono gli ultimi, ha parlato a noi, per     mezzo del Figlio“.

Il quarto vangelo si affaccia vertiginosamente sull’inizio assoluto, e ci dice che l’eterno Figlio di Dio è Parola. E dopo averci svelato un cenno dell’intimità di Dio, aggiunge che quella Parola non è una astrazione evanescente, ma è entrata di persona nella storia, che si è messa in stretto contatto con il comune destino degli uomini, che ha trovato casa nella città degli uomini e ha preso carne dalla nostra carne. Perciò è Parola che si è resa intelligibile al nostro linguaggio.

Guardiamo cosa sta avvenendo in questo momento: io vi sto parlando. Il mio pensiero, per poter raggiungere voi, si traduce nel suono della mia voce. Così il Verbo di Dio, per dirsi e per darsi agli uomini, si è fatto vero e fragile uomo, con una storia umanissima di libertà e di debolezza. Ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana, fino alla quotidianità più limitata e dimessa. Ha provato fame e sete, stanchezza e sonno; ha conosciuto gioia e pianto, compassione e paura, amicizia e sdegno; ha sperimentato sorpresa e meraviglia, tristezza e solitudine, tentazione spirituale e tortura fisica. Ha imparato l’obbedienza attraverso quello che ha sofferto. Con la morte e risurrezione ha portato a compimento la sua crescita d’uomo.

Nella carne, veramente e integralmente umana, di Gesù si concentra tutto quello che Dio Padre voleva e aveva da dirci. Ce lo ha detto tutto in una sola volta e non ha più nulla da rivelare. Ma noi siamo disponibili a far diventare viva nella nostra vita, carne della nostra carne questa unica e definitiva Parola?

  1. Gesù, luce per il nostro buio

         Ognuno di noi conosce le tenebre. Talora si abbattono su di noi come spessa coltre, e ci sembra di sprofondare in un gorgo di oscurità, inghiottiti dal mistero della sofferenza e del male. Spesso vaghiamo smarriti nella nebbia, urtando, senza capirla, ogni realtà spigolosa e rimanendone feriti e sconfitti. Girovaghiamo qua e là come viandanti al buio, costretti a brancolare, a inciampare e cadere. Siamo fatti per la luce, e tuttavia ci vediamo immersi nella notte dell’errore, del dubbio, della più perfida menzogna.

Ma scocca l’ora che sulla monotonia dei giorni piomba una incredibile illuminazione: qui, qui dentro, a partire da queste viscere di buio e di attesa, germina la Parola, l’Essere, la Vita. Dio fa cadere dal cielo la luce di Gesù suo Figlio e la colloca nella nostra storia come un faro regalato a tutti i naviganti che cercano un approdo sicuro nel mare turbinoso della storia. E così conosciamo non solo la nostra origine – veniamo dall’Amore – ma anche la nostra meta: diventare come il Verbo “generati da Dio”, cioè suoi figli. E la luce del Verbo non solo ci rivela come è fatto Dio – Dio è tutto fatto d’amore – ma ci dice pure come siamo fatti noi: impastati di fango e di cielo, noi siamo la sua famiglia.

Dentro la verità del Verbo è riposta la nostra verità, questa: l’appartenenza incrociata di Dio che si fa uomo e dell’uomo che diventa figlio di Dio. Noi siamo suoi. E la sua casa non è soltanto il genere umano e il mondo universo, ma ciascun uomo, perché ogni singolo uomo è il termine dell’Amore. E’ proprio vero che “Dio sa contare fino a uno”; che Dio fa ognuno di noi “a cera persa”; che, per il battesimo, rassomigliamo tutti a Gesù, ma siamo tutti unici, singolari, irripetibili.

Gesù è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno vinta. Il linguaggio scintillante delle luminarie del Natale dice la dolorosa nostalgia di lasciarsi rischiarare dalla Parola-Luce che è Cristo, la luce del mondo, e di ritornare così ad essere conquistati dalla verità che illumina e salva. Ma noi che ci vediamo, cosa ne abbiamo fatto della luce?

 

  1. Gesù, vita per la nostra sete di vita.

Ognuno di noi è fatto per la vita. Non per una vita senza colore e senza calore, senza speranza e senza gioia. Una vita pallida ed esangue, come quella di esili steli di grano cresciuto al buio. Siamo venuti al mondo con dentro l’infinito desiderio di una vita infinita. Sogniamo una esistenza piena, rigogliosa, come piante percorse da una linfa esuberante, capace di portare frutti in abbondanza. Aspiriamo a una vita che sconfini nell’eternità, che si dilati senza limiti, che si superi fino a trascendersi. E invece annaspiamo smarriti in una cultura di morte. E’ per questa cultura che si arriva a soffocare la vita nascente e quella al tramonto, e non si ha rispetto né per l’operaio che lavora in un cantiere dove non si osservano le norme di sicurezza, né per le famiglie che abitano nella terra dei fuochi, né per gli anziani soli e abbandonati. Per questa cultura di morte c’è gente che, mossa dall’avidità del guadagno, non esita a diffondere tra i giovani e perfino tra i ragazzi la disperazione della droga e l’accanimento nocivo e destabilizzante del gioco d’azzardo. Per questa cultura di morte si continua a potenziare il mercato delle armi, arrivando perfino ad armare i bambini e spingendo anche i popoli più poveri a dilaniarsi in lotte fratricide. Per questa cultura di morte non si rispetta il diritto alla libertà religiosa, e vengono perseguitati e uccisi centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle nella fede.

Ma “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4,5). Ecco cosa è avvenuto a Natale: siamo divenuti figli in Gesù, il Figlio unigenito del Padre, primogenito tra molti fratelli, per una adozione tale da comportare non solo un legame puramente giuridico e formale o un vincolo di ordine semplicemente affettivo, ma più ancora per una presenza vera e obiettiva nei nostri cuori, cioè nel nostro intimo, dello Spirito del Figlio suo. Non siamo più orfani. Non siamo più schiavi. Nemmeno di Dio. Comportarsi nei confronti di Dio come uno schiavo è un cosa che non rallegra affatto il suo cuore, perché Dio non è un faraone. A un faraone ci si assoggetta, a un padre ci si abbandona. Onorare la differenza tra Dio Padre e il faraone è una grave responsabilità e un grande onore.

  1. L’evangelo della piccolezza

         Ma nella nascita di questo re senza corona, di questo messia senza esercito, di questo onnipotente senza potere – un umile neonato, avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia – è custodito anche un altro messaggio: un evangelo della piccolezza, secondo cui ciò che ha valore non luccica in superficie con manifestazioni di potenza, ma è piccolo, debole, umile, impotente. Proprio come un bambino. Capiamo allora perché sotto ogni presepe si potrebbe collocare una scritta che riporta le parole di Gesù: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). Gesù chiede una conversione, non una regressione: diventare bambini non significa ritornare infantili.

Per questo occorrerebbe avere più cura dell’infanzia: perché in essa è custodito non solo il futuro del mondo, ma è inscritto anche un orizzonte di novità, un modo originale, sorgivo di ridisegnare le coordinate della vita umana. Si dovrebbe provare a sviluppare una responsabilità nuova verso i bambini e le bambine che, in ogni parte del mondo, hanno bisogno di pace e di pane, di gioco e di studio, di bellezza e di tenerezza. Hanno bisogno di una prospettiva di senso che il mondo adulto stenta oggi a delineare.

Che la celebrazione del Natale aiuti noi adulti a diventare come i bambini, come il piccolo Bambino di Betlemme.

Rimini, Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2014

+ Francesco Lambiasi