Per una comunità fedele e generosa
Alle parrocchie della Comunità pastorale della Divina Provvidenza scrivi: “Così parla il Figlio di Dio che ha occhi fiammeggianti come il fuoco e piedi simili a bronzo incandescente. Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio, la costanza. Io so tutto di voi. So che vi volete bene, che amate e servite i poveri. Anzi, tutto questo ora lo fate più e meglio di prima. Non ho rimproveri da muovervi e non vengo a suggerirvi ‘ricette’ né a farvi i complimenti, perché non ne avete bisogno. Mentre me ne rallegro, vi incoraggio a perseverare nella comunione tra di voi e nella carità verso tutti, a cominciare dagli ‘ultimi’, i poveri”.
Carissimi, quando entro nelle chiese di ognuna delle vostre cinque parrocchie, mi colpisce un segno particolare che fa un po’ da ‘biglietto da visita’ di tutta la vostra Comunità pastorale. All’ingresso trovo un grande pannello bifronte: guardato dalla parte di chi entra, c’è a forma di puzzle la mappa planimetrica della vostra zona pastorale, in cui le parrocchie sono evidenziate ognuna con colori diversi. Guardato dalla parte di chi esce, invece, il pannello mostra un grande volto di Gesù, disegnato a mosaico, con tessere che in piccolo riportano volti di poveri: immigrati, barboni, disabili, tossicodipendenti, bambini denutriti, cristiani perseguitati. Dal pannello traspare un messaggio preciso e provocante: Gesù vive nei poveri, suoi fratelli, e le comunità cristiane ne riproducono il volto nel territorio dove abitano, se non si sottraggono al suo giudizio: “Ero povero e voi mi avete sfamato, ospitato, vestito, visitato, istruito, consolato”.
Vorrei ora leggere un frammento di quel “quinto vangelo” che ogni comunità cristiana, come la vostra, tenta di scrivere con il suo stile originale, con l’immagine espressa dalla sua singolare, tangibile testimonianza. Lo faccio perché lo ritengo utile anche per le altre Comunità pastorali della nostra diocesi. In sintesi nel vostro cammino io leggo il vangelo della carità. Questo binomio merita una spiegazione. Vangelo della carità non significa solo che la carità è il test di credibilità del vangelo. Molto di più: significa che la carità non è né più né meno che il contenuto stesso dell’annuncio. E’ insieme il DNA, il cuore ardente e la spina dorsale dell’intero messaggio cristiano. Perciò i due termini – vangelo e carità – se si sovrappongono, finiscono per combaciare perfettamente. Il vangelo è la carità. La carità è il vangelo.
Con i “fatti di vangelo” della vostra vita e della vivace attività che sviluppate, voi mi dite quali sono le condizioni per cui la carità possa dirsi “vangelo”, cioè lieta notizia che la gente si aspetta, messaggio che dà sapore e colore alla vita, imprime senso e direzione al comune cammino. La prima condizione è la concretezza. L’amore è tale se si fa gesto e storia. Scrive san Giovanni, l’evangelista dell’amore: “Figli miei, amiamo sul serio, a fatti; non solo a parole o con bei discorsi!” (1Gv 3,18). Di questo amore concreto e tangibile voi offrite tanti segni. Mi riferisco a uno in particolare. La vostra zona è collegata da una strada provinciale, afflitta dalla piaga della prostituzione. Voi non vi siete arresi al dilagare di un fenomeno tanto indegno e ripugnante, che riduce donne e perfino minorenni a merce di scambio. Avete chiesto aiuto alla Caritas diocesana e all’APGXXIII, e avete formato gruppi di donne e ragazze che una volta a settimana vanno di notte per strada a incontrare le “schiave del sesso”, proprio come faceva Don Oreste. Voi non andate a lanciare condanne o a commiserare quelle povere vittime della tratta, ma le guardate con rispetto e affetto: come donne e sorelle. E offrite loro delle alternative, mostrando che se ne può uscire. Certo, non avete risolto il problema, ma avete lanciato un segnale, non solo a loro, ma anche ai clienti e alle autorità. “Noi cristiani – diceva don T. Bello – non abbiamo più i segni del potere, ma abbiamo il potere dei segni”.
La seconda condizione – necessaria per trasformare la carità in vangelo – è la trasparenza. Le concrete opere di carità devono essere luminose e visibili, come una lucerna posta sul candelabro o una città collocata sopra un monte, in modo da dare gloria al Padre. Ma occorre fare attenzione: le opere devono essere pubbliche – “davanti agli uomini” – ma non pubblicitarie: non devono fare propaganda alla nostra carità. Ecco la trasparenza: chi vede le “nostre opere” non deve rendere gloria a noi, ma unicamente al Padre nostro che è nei cieli. Perciò la semplice solidarietà non è ancora annuncio del vangelo, non è ancora missione. Lo diventa quando le opere che sono nostre diventano trasparenza delle opere di Dio. Infatti il vangelo – la grande splendida gioiosa notizia – non è tanto il nostro amore per i poveri. I poveri hanno bisogno dell’assoluto e cercano l’infinito amore di Dio attraverso il nostro. Ma lo sappiamo bene: il nostro amore è troppo piccolo e spesso è anche infetto di narcisismo e bacato dall’orgoglio. Comunque, è poco, troppo poco nei confronti dell’amore di Dio che si è manifestato sulla croce di Gesù. Lì Gesù ha dato veramente tutto, fino alla morte. Non solo fino all’ultimo istante, ma proprio fino alla misura più alta. Non si è dato nulla finché non si è dato tutto. Ma noi cosa diamo di noi quando diamo qualcosa?
E’ stato questo spirito di carità – con i suoi ingredienti di base: trasparenza e concretezza – che vi ha aiutato a superare una tentazione assai insidiosa, quella dell’assistenzialismo. In occasione di una grave carestia del Ghana, Caritas Italiana aveva formulato un programma di aiuto inviando ingenti quantitativi di riso. I vescovi di quella piccola e giovane chiesa dissero: “Quanto ci avete inviato ci aiuta a sopravvivere, ma mandateci quanto prima aratri e reti da pesca, perché i giovani non devono accomodarsi nell’assistenza, ma devono lavorare per non averne più bisogno”. L’assistenza tampona un’emergenza. L’assistenzialismo la cronicizza. La solidarietà la risolve alla radice. La carità cristiana assume la solidarietà e la trasfigura in vangelo.
E’ così che si è sviluppata la vostra bella Caritas. Non è un struttura assistenziale: un organo erogatore di aiuti, distributore di fondi, promotore di collette per i poveri. E’ invece l’organo che aiuta l’organismo della comunità a realizzare una sua funzione vitale: la sistole che accoglie l’amore e la diastole che lo rimette in circolo. E’ l’occhio che fa vedere i poveri, antichi e nuovi. E’ l’udito che fa ascoltare il pianto di chi soffre e amplifica la voce di Dio che provoca al soccorso.
Su questa strada voi siete già avanti. Buon cammino.
+Francesco Lambiasi