Omelia del Vescovo per la dedicazione della chiesa parrocchiale di Cristo Re
Gerico, un giorno di fine-marzo dell’anno 30. “Arriva Gesù!”: la voce passa di bocca in bocca, gira di casa in casa, e riempie di folla strade, viuzze e piazzette della deliziosa “città delle palme”, pigramente adagiata nella pianura del Giordano. Ai bordi della fiumana di gente che accoglie Gesù e lo avvolge pressandolo da tutte le parti, c’è lui, Zaccheo, carico di soldi, un uomo piccolo piccolo, anche di statura, che sguscia in incognito e sgattaiola veloce nel folto di un sicomoro. E’ il capo dei pubblicani, come a dire un ladro matricolato, un implacabile aguzzino duro e spietato, un uomo senza cuore e senza Dio, all’infuori del dio denaro. Lo si direbbe un caso disperato, un miserabile disgraziato non solo del tutto impermeabile ad ogni richiamo evangelico, ma refrattario finanche ad ogni sia pur minimo senso di umana pietà. Eppure nel profondo di questo omino tozzo e tondo c’è un lembo di terra vergine, abitato dal desiderio di incontrare Dio, c’è un brano di cuore agitato dalla voglia di vedere quel rabbi galileo che è sulla bocca di tutti.
1. Nella galleria dei personaggi “dipinti” da Luca, Zaccheo è la figura del peccatore convertito. La cosa non finisce di sorprendere: c’è un miracolo più grande del trasformare un avvoltoio in galantuomo, un peccatore in discepolo e testimone? E’ il miracolo della conversione.
Ma ecco, il rabbi galileo sta passando, proprio mentre quel palloncino gonfiato di Zaccheo sembra come rimasto impigliato nella fitta chioma di rami e di foglie del grande sicomoro. E ora l’imprevedibile accade: accade la grazia. L’evangelista fissa l’evento in tre scatti. Primo, uno sguardo che cerca: “alzò lo sguardo”. Due, una voce che chiama: “Zaccheo!”. Tre, un incontro che avviene: “Oggi devo fermarmi a casa tua”. Tutto comincia dallo sguardo di Gesù, che sorprende Zaccheo e lo scruta “dal basso in alto”, non – come facciamo noi tante volte – dall’alto in basso! Non è però come pure sembra a prima vista: non è Zaccheo alla ricerca di Gesù; è anzitutto Gesù alla ricerca di Zaccheo. E lo invita a scendere, ma non per svergognarlo in pubblico, bensì per autoinvitarsi a casa sua: “Oggi io devo fermarmi a casa tua”. “Io devo”: è la settima volta che l’evangelista annota questa parola sulle labbra del Maestro di Nazaret. La prima volta fu quando aveva dodici anni, nel tempio, finalmente ritrovato da Giuseppe e da Maria, la madre. Ma ora Gesù usa quell’espressione per dire che anche a Gerico continua a realizzare la missione che il Padre gli ha affidato: non è venuto a cercare i giusti, ma i peccatori. Quel giorno a Gerico lui “doveva” salvare Zaccheo; era andato là per cercare lui e anche solo per lui ci sarebbe andato. Perché Gesù è fatto così: è come suo Padre che “deve ” cercarmi, ne ha bisogno, non può farne a meno. Se gli manca Zaccheo, gli manca l’ultima pecorella, l’ultima monetina, gli manco io. “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare chi si era perduto”.
Dunque: “Zaccheo, smettila, scendi giù da quell’albero!”: umanissimo Gesù! Non dice: “Scendi subito perché devo convertirti”. Ma: “Voglio avere il piacere e l’onore di essere tuo ospite”. Gesù accoglie Zaccheo prima della sua conversione. Non è la conversione del boss dei pubblicani che determina la simpatia di Gesù, ma è la previa simpatia di Gesù che provoca la conversione di Zaccheo. E poi, una volta entrato a casa del capo, Gesù non gli dice niente, non gli rifila una predica veemente sulla penitenza e sull’inferno. E quando si mette a tavola, non manda di traverso il pranzo a tutti i commensali con una puntigliosa relazione sulla fame nel mondo…
2. Carissimi, la storia di Zaccheo rispecchia la nostra, e l’evento che stiamo celebrando – la dedicazione della vostra chiesa parrocchiale – si rispecchia nel vangelo di Zaccheo e ci dice che cosa è la chiesa di pietra e di mattoni.
La chiesa è il luogo e il segno della casa di “pietre vive”. La pietra di fondamento è Gesù, e noi siamo le pietre poggiate sopra. Noi chiamiamo il tempio la “casa di Dio”, ma lo sappiamo: neanche Dio può stare solo. E’ un Padre e non ce la fa a stare senza che i suoi figli siedano alla mensa di suo Figlio. Allora possiamo dire che la chiesa con la c minuscola è la casa-famiglia dei figli di Dio.
La chiesa è la palestra della misericordia, la tenera divino-umanissima misericordia, che ci rende simili al Padre dei cieli, il cui nome è “Padre”, e “misericordioso” è il suo cognome di famiglia, perché anche il Figlio è il misericordioso: mai egli si chiuse alle necessità e alle miserie dei suoi fratelli. E lo Spirito Santo è la misericordia in persona. Certo, Dio è l’onnipotente, ma trova la sua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono. Pertanto i suoi figli non potranno non perdonarsi a vicenda e non avranno altro debito che la reciproca carità e misericordia. E nella chiesa-palestra potranno allenarsi a quel “sollevamento – pesi”, che richiede la sopportazione paziente dei pesi reciproci.
La chiesa è la scuola della comunione. Non è vero come qualche volta si dice che si entra in chiesa per amare Dio, e se ne esce per amare il prossimo. Non si può dividere ciò che Dio ha unito, e perciò non si può separare il comandamento dell’amore di Dio dal comandamento dell’amore del prossimo. Le persone che compongono la comunità imparano a vivere relazioni a misura della santa Trinità, in cui le persone sono distinte le une dalle altre ma non separate, unite tra di loro ma mai confuse. Per essere e vivere da fratelli, i figli di Dio respingeranno le tentazioni “anti-trinitarie” – gli uni senza gli altri, sopra o contro gli altri – e impareranno a vivere le “preposizioni trinitarie”: gli uni con-per gli altri, addirittura gli uni negli altri.
La chiesa è la base della missione. E’ il cenacolo della pentecoste, dove secondo la bella immagine dell’icona bizantina, gli apostoli stanno con un piede levato, pronti per scattare e uscire in missione: “Usciamo, usciamo per offrire a tutti la vita di Gesù Risorto” (papa Francesco).
La chiesa è la casa della gioia, in cui si vive la passione per le tante pecore che sono andate via, ma si fa festa anche per un solo Zaccheo che si converte. Nella chiesa la comunità dei fratelli “celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione” (EG n. 25).
La chiesa è l’alloggio dei pellegrini: noi cristiani siamo un popolo in cammino, non una massa di vagabondi che non ricordano più da dove vengono e dove stanno andando. Siamo un popolo di pellegrini in cammino verso la casa del Padre: pertanto la chiesa diventa la stazione in cui si fa sosta e si fa rifornimento per la tappa successiva, fino alla soglia della casa del Padre, quando verrà la sera del sabato senza tramonto…
Ecco infine una preghiera, che ci può aiutare a fissare questi pensieri, provocati dalla liturgia della dedicazione della vostra bella chiesa.
Quale sarà il mio posto nella casa di Dio? Lo so, non mi farai fare brutta figura, non mi farai sentire una creatura che non serve a niente.
Perché tu sei fatto così, Signore: quando ti serve una pietra per la tua costruzione, prendi il primo ciottolo che incontri, lo guardi con infinita tenerezza e lo rendi quella pietra di cui hai bisogno: ora splendente diamante, ora opaca e ferma come una roccia, ma sempre adatta al tuo scopo.
Cosa farai di questo ciottolo che sono io? Tu ti metti a cesellare la mia vita e fai cose inaspettate, gloriose. Se mi metti sotto un pavimento che nessuno vede ma che sostiene lo splendore dello zaffiro o in cima a una cupola che tutti guardano, ha poca importanza. Importante è trovarmi ogni giorno là dove tu mi metti, senza ritardi. E io, per quanto pietra, sento di avere una voce: voglio gridarti, o Dio, la mia felicità di trovarmi nelle tue mani, malleabile, per renderti servizio, per essere tempio della tua gloria (card. Ballestrero).
Rimini, 1 novembre 2014
+ Francesco Lambiasi