Omelia del Vescovo per la Domenica delle Palme
Orrore, sconcerto, stupore: sono le emozioni registrate ai piedi della croce, ma anche provate a qualche decina d’anni dai fatti, come testimonia san Paolo, a Corinto e in ogni città e borgata dell’impero dove si predicava il vangelo del Messia crocefisso. Secondo l’Apostolo, la croce provocava immancabilmente il fremito dell’orrore nei Giudei, scandalizzati per una fine tanto infamante, e produceva il sussulto dello sconcerto nei pagani, irritati per un messaggio totalmente assurdo e irricevibile, fino ad apparire inquinato dalla idiozia più pazzesca (1Cor 1,18). Per i Giudei era del tutto inconcepibile un Messia che non aveva potuto salvare se stesso, scendendo dalla croce. Il santo servo di Dio, Giovanni Battista, aveva preannunciato un Messia inflessibile e lo aveva dipinto come un giustiziere implacabile, che avrebbe fatto piazza pulita nell’aia della casa di Dio. Invece questo Gesù di Nazaret se l’era fatta con pubblicani e peccatrici e, dall’alto della croce, avrebbe invocato da Dio non una legione di angeli per incenerire i suoi avversari, ma perdono e misericordia per mandanti e carnefici. Alla vista di Greci e Romani, poi, la storia della croce non poteva risultare che follia e stoltezza: non la stoltezza audace e ardimentosa dell’eroismo più temerario, ma quella della balordaggine più insensata, della stupidità più insulsa. Che razza di Figlio di Dio può essere un povero straccione, che non può disporre neanche di una guardia del corpo che lo difenda da attentati, da stragi e carneficine? Rimbalzava anche a Corinto, come ad Alessandria e perfino a Roma, lo sconcerto già sperimentato dai soldati crocifissori e che si era espresso nello scherno più impietoso: come può salvare gli altri uno che non può salvare se stesso?
Ma per i credenti, sia Giudei che Greci, proprio quel capo d’accusa lanciato con crudele sarcasmo contro il Crocefisso – “non ha potuto salvare se stesso” – dimostrava che “la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1,25). La fede si prendeva la rivincita sull’orrore degli Ebrei e sullo sconcerto dei pagani, e suscitava uno stupore incontenibile. Gesù non era morto come il grande Socrate e neanche come Giovanni il Battezzatore. Socrate era morto con l’olimpica imperturbabilità del saggio che domina, intrepido, la paura della morte fino a fare dell’ironia su di sé e sui propri giudici e carcerieri. “Tutto d’un fiato, senza dar segno di disgusto – racconta Platone nel Fedone, “uno di quei pochi libri che provocano gli uomini a indagare se sono degni del loro nome” (Guardini) – piacevolmente vuotò la coppa (della cicuta, il veleno mortale) fino in fondo”. Giovanni, d’altro canto, era morto come un santo, come un fiero testimone della verità, con la gloriosa aureola del martirio. Socrate era morto scherzando amabilmente con i suoi discepoli fino all’ultimo; Giovanni aveva finito i suoi giorni, senza arretrare di un millimetro nella sua impavida testimonianza alla verità. Socrate e Giovanni concludono una vita compiuta, una missione riuscita. Invece “Gesù, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,7-9).
Socrate è l’eroe, Giovanni è il martire: sia l’uno che l’altro sono l’eccezione, non ogni uomo. Gesù sulla croce, invece, è ogni uomo. Socrate muore come forse vorremmo morire. Gesù muore come veramente si muore. Ma se Gesù muore perché non scende dalla croce e non salva se stesso, tutto questo è per un atto di smisurato amore: come potrebbe scendere dalla croce se i suoi fratelli non ne possono discendere? La sera prima, nel cenacolo aveva solennemente proclamato: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. San Paolo ai Romani ha l’ardire di affermare: “A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,6-8). Ecco la verità: gli eravamo nemici e lui, morendo, ci ha resi suoi amici (cfr Rm 5,10). Gesù infatti ha rinunciato a stravincere sui suoi nemici, ma ha stravinto l’inimicizia, e non l’ha stravinta fuori di sé, ma in se stesso (cfr Ef 2,14-16).
Dopo duemila anni che si è diffusa la fede nel Crocifisso-Risorto, dopo anni e anni che ricordiamo nella nostra vita i giorni della sua Passione, c’è un nemico che congiura contro l’insorgere di un sia pur appena accennato sentimento di stupore: non è l’incredulità; è l’assuefazione. Ci abbiamo fatto il callo con riti e devozioni e rischiamo di non vibrare più di fronte all’evento che ha cambiato la storia e ha trasformato il mondo. Ma come possiamo andare in automatico con la croce di Gesù? Lo sappiamo, l’assuefazione è inesorabile, asfalta tutto: sentimenti, sorprese, sbalordimenti.
Ci sono tre vie che ci aiutano efficacemente a non cadere in questo rischio. La prima è quella degli affetti e delle devozioni, come ad esempio la Via Crucis. Ma ce n’è un’altra ancora più importante: quella dei sacramenti e della santa liturgia, in particolare della liturgia eucaristica. Qui raggiungiamo il massimo di partecipazione, perché non solo ricordiamo, ma riviviamo la morte e la risurrezione del Signore. Poi c’è la via della conversione, quando ci lasciamo incontrare da Gesù nella nostra esistenza e sperimentiamo la salvezza della nostra vita.
In questi santi giorni contempliamo, adoriamo, ringraziamo.
Rimini, Basilica Cattedrale, 13 aprile 2014
+ Francesco Lambiasi