Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della Messa celebrata per l’AC
Gesù di Nazaret è un vero uomo, non un super-uomo. No, non è un Superman, che “non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa, come noi, escluso il peccato” (Ebr 2,18). La sua umanità non è uno scafandro impermeabile che avvolge e nasconde la sua divinità. Anzi ne è la più limpida trasparenza. Gesù non è morto come un eroe senza macchia e senza paura, ma, piuttosto, come l’anti-eroe, che ha letteralmente sperimentato su di sé l’angoscia, la paura e il turbamento di fronte alla croce. L’antifona di questa liturgia canta con squilli di vittoria: “Per noi ha sofferto tentazione e morte”. La prova, la tentazione, la morte è il test più attendibile dell’umanità verace del Figlio di Dio, un uomo ‘umano-umano’, non nonostante sia, ma proprio perché è, la sua, l’umanità di Dio.
1. L’episodio delle tentazioni nel deserto è molto di più che un… episodio. Il triplice racconto dei sinottici è fondato su un dato storico, assolutamente ininventabile: mai la comunità cristiana si sarebbe permessa di “creare” una serie di episodi in cui Cristo appare sottoposto alla tentazione di Satana. Un avvenimento, dunque, è la dura prova giocata nel deserto, e più che un avvenimento. E’ un “vangelo”: un evento che contiene un messaggio di salvezza per noi, un’autentica buona notizia: Gesù è stato tentato da Satana come noi ed è risultato vincitore per noi. La sua tentazione è stata una seduzione da parte del Maligno, ma, poiché l’iniziativa e la ‘regia’ della prova è stata diretta dallo Spirito Santo – è lui che ha ‘condotto’ o addirittura ‘sospinto’ Gesù nel deserto (Mt 4,1; Mc 1,12) – quella prova è risultata una chance per Gesù di ribadire la sua adesione al disegno del Padre sulla propria vita. In questa assemblea liturgica che si celebra in coincidenza con l’assemblea elettiva dell’AC diocesana, vorrei accennare ad alcune chances che oggi l’AC ha di rinnovarsi nel suo cammino di fede.
La prima è la chance religiosa. Dopo la desertificazione di senso ad opera della secolarizzazione, ora noi assistiamo a un promettente risveglio religioso. Nel momento in cui la società secolarizzata appare sempre più asfittica e soffocante, in cui, soprattutto i giovani, sentendosi traditi e delusi, cercano con tutti i mezzi di uscirne, sarebbe strano che la Chiesa perdesse tempo con una pastorale al ribasso. Oggi è morto il cristianesimo dell’abitudine, della tradizione, della convenzione sociale, e sta rinascendo il cristianesimo dell’innamoramento, della convinzione e della responsabilità.
Ma non per questo siamo esenti da una tentazione sottile e pervasiva: quella di ridurre la fede a una emozione religiosa, a un brivido a pelle. Oggi siamo chiamati alla nuova evangelizzazione. Dobbiamo tornare alle origini, e alle origini della nostra fede c’è sempre la parola di Dio, il puro e santo vangelo. La conversione di Francesco d’Assisi inizia dall’incontro con Cristo, da lui contemplato nel Crocifisso di san Damiano, identificato poi nel lebbroso e nei poveri. Papa Francesco non si stanca di ripetere le parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva” (DCE 1).
Ecco come si supera la tentazione di ridurre il cristianesimo a una vaga emozione religiosa, che poi fatalmente svapora e spesso ‘precipita’ in una triste, monotona litania di riti, di formule, di leggi e leggine. La tentazione si vince con l’esperienza dell’incontro con il Gesù vivo nella Chiesa e nei poveri. Allora si prova “la dolce e confortante gioia di evangelizzare” (EG n. 13) e non si cade nell’errore di intendere (l’evangelizzazione) “come un eroico compito personale, poiché l’opera è prima di tutto sua, al di là di quanto possiamo scoprire e intendere” (EG 12). E si viene sorpresi dalla gioia del Vangelo che “riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (EG 1).
Non facciamoci rubare la gioia del Vangelo!
2. La seconda chance è quella popolare. La domanda ricorrente, che attraversa tutta la storia della Chiesa, è: dobbiamo formare comunità cristiane di élite o di popolo? di militanti duri e puri o di peccatori umili e festanti? Dobbiamo ricordare che noi siamo sempre e solo dei poveri dis-graziati che sono stati super-graziati. Non ci siamo riconciliati noi, di nostra iniziativa, con Dio, ma è Dio Padre che si è riconciliato con noi e ci ha usato misericordia (cfr 2Cor 5,18). Possiamo, allora, e vogliamo gustare “il piacere di essere popolo”: “Per essere evangelizzatori autentici occorre sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore” (EG 268). Perciò “vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con quelli che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità”. Sono parole di papa Francesco che, a tal proposito, parla di “rivoluzione della tenerezza”.
L’AC conserva nel suo DNA questa nota della popolarità. Che la nostra associazione diocesana di AC ricordi ai suoi membri e a tutti una verità fondamentale: prima ancora che per la fedeltà di noi a Cristo, la Chiesa esiste per la fedeltà di Cristo a noi.
Non lasciamoci scippare la gioia di essere popolo di Dio!
3. La terza chance per la nostra AC è quella comunitaria. In una società ad alto tasso di individualismo, viviamo in un arcipelago di isolotti. Siamo continuamente tentati di ripiegarci nel nostro guscio, di isolarci e di rinchiuderci nella nostra nicchia calda e dorata. Anche la Chiesa è ad alto rischio di frammentazione, come la comunità di Corinto, spezzettata tra quelli che erano di Paolo, quelli di Apollo, di Cefa, addirittura di Cristo. Anche le nostre comunità sono attraversate da forze centrifughe; registrano l’urto di tensioni disgreganti. E poi ci sono i cristiani ‘migranti’, che si allontanano dalla Chiesa quando essa trema d’inverno, per rientrare quando rifiorisce a primavera. Un laico di AC vive le quattro stagioni che, nel calendario della Chiesa, si susseguono nel tempo e nello spazio. Una associazione di AC è viva, se verifica continuamente la sua esistenza all’interno della comunità cristiana. E un’AC viva, bella, attraente scrive la parola Chiesa tante volte quante scrive la parola Cristo.
Non lasciamoci trafugare la gioia della comunità!
Rimini, Basilica Cattedrale, 9 marzo 2014
+ Francesco Lambiasi