Una riforma per via di santità
Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa per la Giornata della Vita consacrata
Quale impareggiabile fortuna, quel giorno, per il povero, vecchio Simeone! Aveva passato la vita a sognare il Messia. Per anni e anni avrà accarezzato il desiderio di poter assistere al suo ingresso trionfale nel tempio di Gerusalemme. Ma poi il sogno aveva assunto i contorni della promessa più affidabile, da quando lo Spirito Santo in persona gli aveva garantito che non sarebbe morto senza aver prima visto l’Unto del Signore. E chissà come se lo sarà immaginato, Simeone, il Messia d’Israele: come un re devoto e fedele quale il santo re Davide? o paludato della sfavillante armatura di un eroe guerriero roccioso e imbattibile? oppure come un sommo sacerdote, dal portamento ieratico e impeccabile? Ma forse, vista la sua indole umile e pacifica, se lo sarà rappresentato semplicemente come un pastore, con addosso il buon odore acre, ma gradevole, delle pecore. Passano giorni, mesi, anni, e Simeone non si stanca di aspettare. E’ un vero figlio di Abramo, capace di sperare contro ogni speranza, disponibile a lasciarsi sorprendere da un Dio abituato a superare se stesso. Ed ecco, scocca l’ora dell’appuntamento: “mosso dallo Spirito” Simeone si reca al tempio. La promessa si compie come una imprevedibile sorpresa: il Messia è proprio lui, quel piccolo bambino portato in braccio dalla sua povera, giovane Madre. Così, l’incontenibile desiderio del vegliardo si realizza in una cornice di stupefacente umiltà, fino a liberare la vita dalla faticosa speranza che l’ha tenuta accesa, fino a invocare il sonno pacificato di sorella morte dopo l’interminabile attesa. In quel bambino, che gli scalcia tra le braccia come tanti, che piange e dorme e si succhia il dito come tutti, gli occhi di Simeone vedono e riconoscono la “salvezza fatta carne”. Anche Anna, la profetessa, esce dall’ombra e appare come la figura di Israele, la sposa del Signore, che attende il suo Cristo, il re-Messia.
1. Simeone e Anna, icone di speranza, modelli di attesa. Non sono forse proprio l’attesa e la speranza i parametri della vostra vita, sorelle e fratelli consacrati? Oggi però sembra che non sia più il tempo della speranza, ma della frustrazione; non più l’ora dell’attesa, ma della più amara delusione.
Quelli di noi più avanti negli anni erano arrivati alla professione con il vento alle spalle: era il vento impetuoso del post-Concilio che ci aveva fatto sognare in grande. Il futuro veniva da noi guardato con ottimismo. Ci si batteva per una Chiesa più povera e carismatica, più incarnata e fraterna, libera dal trionfalismo, dall’autoritarismo, dal clericalismo. I giovani che ci hanno seguito si sono progressivamente ridotti di numero, fino agli attuali che ci pongono e con i quali ci poniamo domande brucianti: i nostri carismi sono attuali? la vita consacrata cosa rappresenta nella Chiesa? ha ancora qualcosa da dire? avrà un futuro? i nostri giovani reggeranno al nostro genere di vita?
Ma poi l’anno scorso “venne un uomo mandato da Dio”, J.M. Bergoglio, chiamato Francesco, il nuovo vescovo di Roma. Penso che sia determinante per il rinnovamento della vita religiosa lasciarci percuotere dal vento riformatore che, con l’avvento del nuovo papa, ha fortemente investito la Chiesa e che – non possiamo dubitarne – è il vento del Concilio e proviene dallo Spirito Santo. Nella sua prima esortazione apostolica, Evangelii gaudium – non ho trovato riferimenti diretti ed espliciti alla vita consacrata, ma tenendo presente lo spirito di fondo che la ispira, penso che la vita consacrata possa e debba assicurare alla Chiesa quella riforma che si potrebbe chiamare “per via di santità”. L’espressione risale a un classico della teologia cristiana, un libro pubblicato negli anni ’50, quindi prima del Concilio, a firma di Y. Congar, intitolato “Vera e falsa riforma della Chiesa”.
2. Come modello della vera riforma della Chiesa “per via di santità”, vi si addita Francesco d’Assisi. E, visto che papa Francesco, proprio dal Poverello ha voluto prendere il nome, per intraprendere il sentiero della “riforma della Chiesa in uscita missionaria”, anche noi vogliamo ripartire da Francesco. Ma per capire qualcosa dell’avventura di questo santo, bisogna ricominciare dalla sua conversione. Di tale evento esistono, nelle fonti, diverse descrizioni con notevoli differenze tra di loro. Per fortuna abbiamo una fonte assolutamente affidabile che ci dispensa dallo scegliere tra le varie versioni. Abbiamo la testimonianza di Francesco stesso nel suo Testamento. Scrive:
Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
Gli storici insistono giustamente sul fatto che Francesco, all’inizio, non ha scelto la povertà e tanto meno il pauperismo; ha scelto i poveri! Il cambiamento avvenuto in Francesco sarebbe motivato più dal comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che non dal consiglio: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Era la compassione per la povera gente, più che la ricerca della propria perfezione che lo muoveva, la carità più che la povertà.
Tutto questo è vero, ma non tocca ancora il fondo del problema. È l’effetto del cambiamento, non la sua causa. La scelta vera di san Francesco fu molto più radicale: non si trattò di scegliere tra ricchezza e povertà, né tra ricchi e poveri, tra l’appartenenza a una classe piuttosto che a un’altra, ma di scegliere tra se stesso e Dio, tra salvare la propria vita o perderla per il Vangelo.
Il motivo profondo della sua conversione non è di natura sociale, ma evangelica. Gesù ne aveva formulato la legge una volta per tutte con una delle frasi più solenni e più sicuramente autentiche del Vangelo:
“Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Mt 14, 24-25).
Francesco, baciando il lebbroso, ha rinnegato se stesso in quello che era più “amaro” e ripugnante alla sua natura. Ha fatto violenza a se stesso. Il particolare non è sfuggito al suo primo biografo che descrive così l’episodio:
“Un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria”.
Francesco non andò di sua spontanea volontà dai lebbrosi, mosso da umana e religiosa compassione. “Il Signore, scrive, mi condusse tra loro”. È su questo piccolo dettaglio che gli storici non sanno – né potrebbero – dare un giudizio, ed è invece all’origine di tutto. Gesù aveva preparato il suo cuore in modo che la sua libertà, al momento giusto, rispondesse alla grazia. Pur senza pensare che si trattasse di Gesù in persona sotto le sembianze di un lebbroso, in quel momento il lebbroso per Francesco rappresentava a tutti gli effetti Gesù. Non aveva egli detto: “L’avete fatto a me”? In quel momento ha scelto tra sé e Gesù.
Tutto questo ci obbliga a correggere una certa immagine di Francesco resa popolare dalla letteratura posteriore e accolta da Dante nella Divina Commedia. La famosa metafora delle nozze di Francesco con Madonna Povertà che ha lasciato tracce profonde nell’arte e nella poesia francescane può essere deviante. Non ci si innamora di una virtù, fosse pure la povertà; ci si innamora di una persona. Le nozze di Francesco sono state, come quelle di altri mistici, uno sposalizio con Cristo (R. Cantalamessa).
3. Ai compagni che gli chiedevano se intendeva prendere moglie, vedendolo una sera stranamente assente e luminoso in volto, il giovane Francesco rispose: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista”. Questa risposta viene di solito male interpretata. Dal contesto appare chiaro che la sposa non è la povertà, ma il tesoro nascosto e la perla preziosa, cioè Cristo. “Sposa, commenta il Celano che riferisce l’episodio, è la vera religione che egli abbracciò; e il regno dei cieli è il tesoro nascosto che egli cercò”. Francesco non sposò la povertà e neppure i poveri; sposò Cristo e fu per amor suo che sposò, per così dire “in seconde nozze” Madonna povertà. Così sarà sempre nella santità cristiana. Alla base dell’amore per la povertà e per i poveri, o vi è l’amore per Cristo, oppure i poveri saranno in un modo o nell’altro strumentalizzati e la povertà diventerà facilmente un fatto polemico contro la Chiesa, o una ostentazione di maggiore perfezione rispetto ad altri nella Chiesa, come avvenne, purtroppo, anche tra alcuni dei seguaci del Poverello. Nell’uno e nell’altro caso, si fa della povertà la peggiore forma di ricchezza, quella della propria giustizia.
Yves Congar vede in ciò una delle condizioni essenziali della “vera riforma” nella Chiesa, la riforma, cioè, che rimane tale e non si trasforma in scisma: vale a dire la capacità di non assolutizzare la propria intuizione, ma rimanere solidale con il tutto che è la Chiesa. La convinzione, dice papa Francesco, nella sua recente esortazione apostolica Evangelii gaudium, che “il tutto è superiore alla parte”.
Quello additato da Francesco d’Assisi è un traguardo difficile – chi vi parla è lontano dall’esservi giunto – ma la vicenda di Francesco, ci mostra cosa può nascere da un rinnegamento di sé fatto in risposta alla grazia. Il premio è la gioia di poter dire con Paolo e con Francesco: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”. E sarà l’inizio della gioia e della pace, già su questa terra. Francesco, con la sua “perfetta letizia”, è l’esempio vivente della “gioia che viene dal Vangelo”, l’Evangelii gaudium.
Preghiamo ed operiamo perché il profumo della vostra “perfetta letizia” continui a farsi respirare a pieni polmoni nella nostra Chiesa, carissime Sorelle e cari Fratelli!
Rimini, Basilica Cattedrale, 2 febbraio 2014
+ Francesco Lambiasi