“Andiamo in cerca di tutti, senza aspettare che siano gli altri a cercarci” (Papa Francesco). Relazione del Vescovo all’Assemblea Pastorale Diocesana
Nel corso della visita pastorale ho avuto modo di registrare una domanda, che circola nelle nostre comunità, e che non può essere ignorata né sottaciuta. Questa: ma è proprio vero che “una volta le cose andavano meglio” o che “ieri funzionava meglio di oggi”? Non è una domanda cattiva, ma molto probabilmente è una… cattiva domanda! Ad ogni modo si può esserne certi: una questione del genere, praticamente, si è sempre agitata, di generazione in generazione, all’interno delle comunità cristiane. Anzi, prima ancora, quella domanda si è posta anche all’interno dell’antico Israele. Leggiamo nel libro dell’Ecclesiaste (III secolo a C.): “Non dire: ‘Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?’, perché una domanda simile non è ispirata a saggezza” (Qo 7,10). Commentava, con ironia pungente, s. Agostino: “Stiamo sereni! Quelli che si lamentano dei tempi presenti e decantano a bocca rotonda i tempi passati, se fossero vissuti allora, non mancherebbero di lamentarsi ugualmente”. In effetti possiamo tranquillamente affermare che “tutti i tempi non si equivalgono, ma tutti i tempi sono tempi cristiani. Ce n’è però uno che per noi praticamente li supera tutti: il nostro!” (A.D. Sertillanges). Ha ragione papa Francesco, quando, con il suo linguaggio schietto e colorito, ci mette in guardia dagli “incantesimi della dea lamentela”.
Né indignati, né rassegnati
Non siamo condannati all’indignazione né alla rassegnazione: non siamo costretti a dire che viviamo tempi tristi, di “morta fede e di empietà trionfante”. Anche il nostro è e rimane un tempo di grazia, pur con tutte le sue negatività e pesanti contraddizioni. Con l’incarnazione e la Pasqua, Gesù non ha redento solo lo spazio; ha riscattato anche il tempo, e il tempo è più importante dello spazio. Come si diceva una volta – ed è rimasto scritto su tante lapidi del passato – quando si voleva ricordare un evento “a futura/perpetua memoria”, si aggiungeva immancabilmente la clausola “nell’anno di grazia del Signore”. E magari proprio in quell’anno si era registrato un evento funesto e drammatico: il contagio di una epidemia, l’esplosione di un conflitto armato, il flagello di un terremoto o di una carestia. Ma il tutto, anche il negativo e il catastrofico, lo si faceva rientrare – in luce di fede – in un disegno più grande, quello della divina Provvidenza, che sa trarre il bene anche dal male, e riesce a far sovrabbondare la grazia là dove era abbondato il peccato.
Certo, il nostro tempo rimane anche un tempo di prova, ma ce n’è mai stato qualcuno esente da drammi, incertezze, incidenti? Del resto, non è forse vero che la Chiesa, nella prova, cresce e si rafforza? Pensiamo alle persecuzioni. Tertulliano affermava che “il sangue dei martiri è seme di cristiani”. Non dimentichiamo che nel solo 2012 oltre 100mila cristiani sono stati uccisi per la fede, e ai nostri giorni ogni cinque minuti nel mondo viene martirizzato un cristiano.
Papa Francesco, nella prima messa celebrata all’indomani della sua elezione, ha affermato che, se la Chiesa dimentica la croce, si riduce a una pietosa ONG assistenziale. La verità della croce ci rende sciocchi e insani agli occhi del mondo: noi cristiani siamo gli unici sul pianeta – non per nostro merito, ma per puro dono – a credere nella croce, e addirittura osiamo dire che la croce è grazia. Noi abbiamo la faccia tosta di ritenere che anche la prova, la persecuzione, l’angoscia, la tribolazione a causa del vangelo è grazia. In questi ultimi anni ci è toccato declinare i misteri dolorosi della storia della Chiesa, ma ora sembra che il Signore voglia farci sperimentare, mescolati ai dolorosi, anche i misteri gaudiosi. Infatti non è forse vero che, quando il Signore fa la piaga, poi la fascia? Non è forse vero che, attraverso l’umiliazione, il Signore vuole rendere la sua Chiesa più umile, e perciò più vera e più bella?
Tempo di grazia e di prova, il nostro è anche un tempo di speranza, non perché le cose vadano bene, ma perché il Signore non si è ancora stancato di noi, non si è ancora pentito di volerci bene e di darci fiducia. Noi credenti in Cristo crocifisso e risorto non siamo dei privilegiati, esonerati da prove e da crisi: siamo solo poveri peccatori, amati e graziati.
A questo punto permettetemi un’altra citazione:
“Anche questa volta dalla crisi di oggi verrà fuori domani una Chiesa che avrà perduto molto. Diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto daccapo. Sarà una Chiesa interiorizzata, che non mena vanto del suo mandato politico e non flirta né con la sinistra né con la destra. Farà questo con fatica. Il processo della chiarificazione la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli. A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, ma della fede. Certo essa non sarà mai più la forza dominante della società, nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà agli uomini come la patria, che ad essi dà vita e speranza oltre la morte”.
Lo scriveva un giovanissimo Joseph Ratzinger, nel lontano 1970 (cfr Fede e futuro).
Qual è allora la parola di Dio che ci fa da lampada per il cammino da intraprendere? La troviamo nella Lettera agli Ebrei: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori… Esortatevi a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi” (Eb 3,7.13). E’ ormai da 2000 anni che siamo entrati nel tempo della salvezza, nel grande oggi della grazia. Ogni giorno noi possiamo dire: “Anche ieri (è stato), anche domani (sarà), tutti i giorni Cristo è con noi, poiché ogni giorno dura quest’oggi”. Gesù risorto mantiene la promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Ora vi propongo di gettare tre sguardi sulla nostra Chiesa: il primo all’indietro; il secondo in alto; il terzo in avanti.
1. GUARDIAMO INDIETRO
1.1. Il ‘campo’ delle parrocchie
Come si presenta il panorama delle parrocchie agli occhi del vescovo che lo ha esplorato e cercato di leggere ‘ai raggi x’ della fede? Dalla ‘finestra’ della visita pastorale, con le lenti del buon Seminatore, ho senz’altro avuto modo di vedere sassi e spine, ma ho potuto anche intravedere molto terreno buono. Non vorrei contagiare angoscia: posso dire che non ho trovato nessuna parrocchia dove ci siano solo sassi o solo spine, come non ho incontrato una sola parrocchia in cui sassi e spine manchino del tutto.
1.1.1. Quali sono i sassi che vedo in questo campo? In rapida elencazione, li indicherei con i termini di secolarismo, scientismo, relativismo, individualismo.
Per uno dei maggiori studiosi, Charles Taylor, il secolarismo consiste “nel passaggio da una società in cui la fede in Dio è un fatto incontrovertibile a una società in cui la fede viene considerata come una opzione tra le altre”. In questa accezione, il secolarismo rappresenta una esasperazione della secolarizzazione, quel fenomeno per cui la società – nel suo complesso – non adotta più un comportamento ‘sacrale’, si allontana da schemi, usi e costumi tradizionali, segnati da una particolare incidenza del ‘sacro’ sulla società. In alcuni paesi e ambiti culturali, la scristianizzazione può essere identificata con il correlativo fenomeno della ‘scristianizzazione’.
Venendo alla situazione religiosa della nostra Diocesi, dobbiamo prendere atto che essa rispecchia sostanzialmente quella generale dell’Italia e ci accomuna ai cristiani delle altre regioni italiane nelle sfide alla professione della nostra fede. Da una parte si conservano larghe tracce di tradizione cristiana, dall’altra si registra un pervasivo processo di secolarizzazione. Si diffonde una concezione della vita, da cui è escluso ogni riferimento al vangelo di Gesù Cristo e al Trascendente. Questa ‘cultura secolarista’ dipende da molteplici influssi culturali: il razionalismo, che assolutizza la ragione a scapito della fede; lo scientismo, che accetta solo ciò che si può sperimentare; il relativismo, che radicalizza la libertà individuale; il materialismo consumista, che esalta l’avere e il benessere materiale; il laicismo, che confonde la giusta imparzialità dello Stato di fronte alle varie religioni è la ‘laicità positiva’), con la sua inaccettabile indifferenza al loro riguardo; il soggettivismo, che induce molti cristiani a selezionare in maniera arbitraria i contenuti della fede e della morale cristiana, a relativizzare l’appartenenza ecclesiale e a vivere l’esperienza religiosa in forma intimista e individualista. La conseguenza principale di questi ‘ismi’ è la diffusione dell’indifferenza religiosa: non si nega Dio, ma lo si considera irrilevante per la nostra vita e per la storia dell’umanità. Ne è un segno la diminuzione della pratica religiosa, visibile nella partecipazione alla Messa domenicale e festiva e, ancor più, al sacramento della Penitenza. Tanti battezzati vivono come se non lo fossero mai stati: hanno smarrito identità e appartenenza; non conoscono i contenuti essenziali della fede o pensano di poterla coltivare facendo a meno della mediazione ecclesiale. Altri riducono il regno di Dio ad alcuni grandi valori (pace, libertà, uguaglianza ecc.), dimenticando che il Regno non è un concetto, un programma soggetto a libera elaborazione, ma è innanzitutto una persona che ha il volto e il nome di Gesù di Nazaret. In una parola, la nostra Chiesa riminese ha urgente bisogno di porre mano alla “nuova evangelizzazione”. Infatti si registra anche in casa nostra una certa stanchezza nel credere e addirittura di una assuefatta noia nel “fare” i cristiani. Il nocciolo della crisi di tante comunità cristiane è la crisi della fede.
1.1.2. E le spine che rischiano di soffocare il seme buono che tenta di crescere nel nostro campo? L’elenco completo sarebbe lungo e piuttosto lugubre, ma dobbiamo avere l’umile coraggio di guardare in faccia la realtà. Queste spine portano il nome triste di conflittualità, pettegolezzo, intimismo, tradizionalismo, parlamentarismo, attivismo, campanilismo, devozionalismo… Tante specie di ‘spine’, una sola radice, maligna e velenosa: autoreferenzialità, come la chiama, con linguaggio chiaro e spiccio, papa Francesco, il quale fin dai primissimi giorni del suo pontificato, ci ha detto e ridetto che preferisce una Chiesa “incidentata” per il suo uscire e andare incontro ai poveri, ad una chiesa “ammalata di autoreferenzialità”. La Chiesa non può e non deve rimanere accartocciata su se stessa. Deve uscire. Non deve tenere imprigionato il Cristo nelle sue mura; deve farlo andare via per poi incamminarsi sulle sue orme. Come non riconoscere che la radice cattiva dell’autoreferenzialità alligna anche in casa nostra? Quando una parrocchia entra in concorrenza con la parrocchia vicina; quando non si rallegra più con la parrocchia che è nella gioia e non soffre più con quella che è nel pianto; quando si ritiene appagata per i pochi che sono rimasti e non si preoccupa più per i molti che se ne sono andati via; quando trattiene la Parola all’interno del suo recinto e non la fa più correre per le strade del quartiere o del paese; quando non è più significativa e attraente per i giovani e gli adulti; quando si rende impermeabile ai carismi portati da associazioni e movimenti; quando non si fa carico di malati, immigrati e disoccupati… non merita forse il rimprovero che Cristo rivolge alla chiesa di Efeso, nell’Apocalisse: “Conosco le tue opere… ho però da rimproverarti di aver abbandonato il tuo primo amore” (2,2.4).
1.1.3. Ma c’è anche il terreno buono e, grazie a Dio, ce n’è veramente tanto. Ecco i segni che caratterizzano come buono il terreno di tante comunità parrocchiali. Ne enumero velocemente sette.
Il primo segno è quello di comunità che sanno accogliere e ascoltare paure e speranze della gente e sanno offrire una coraggiosa testimonianza e un annuncio affidabile della verità che è Cristo. Il frutto legato a questo segno è quello delle conversioni: persone che accolgono la buona notizia del vangelo, scelgono di entrare o tornare nella Chiesa e decidono di cambiare vita.
Il secondo segno è quello di parrocchie che stanno rinnovando l’iniziazione cristiana dei fanciulli coinvolgendo maggiormente le famiglie e propongono a giovani e adulti nuovi e praticabili itinerari per la riscoperta della fede.
Il terzo segno è quello di parrocchie che si propongono e riescono a ripresentare la domenica in tutta la sua ricchezza e sanno offrire una celebrazione eucaristica curata secondo verità e bellezza.
Il quarto segno è quello di comunità parrocchiali che assumono un volto veramente missionario con la scelta di curare, accompagnare e servire la fede degli adulti, raggiungendoli nelle dimensioni degli affetti, del lavoro e della festa, della fragilità, degli impegni sociali e civili.
Il quinto è il segno di parrocchie che perseguono l’obiettivo di una vera autoriforma e diventano punto di riferimento nel territorio, spazio di fecondità del vangelo e di testimonianza dell’amore di Dio per tutti, a cominciare dai deboli e dagli ‘ultimi’, compresi emarginati è ‘lontani’ dalla Chiesa.
Il sesto segno è quello di parrocchie che abbandonano ogni pretesa di autosufficienza, si collegano tra di loro, nel respiro di una effettiva ed efficace pastorale integrata.
Il settimo è il segno di una parrocchia missionaria che si sente tutta responsabile del vangelo, con preti più pronti alla collaborazione nell’unico presbiterio e più attenti a promuovere carismi e ministeri, sostenendo la formazione dei laici, con le loro associazioni – in particolare l’Azione Cattolica – valorizzando i nuovi movimenti e la vita consacrata, creando spazi di reale partecipazione, specialmente i consigli pastorali parrocchiali.
1.2. Il panorama diocesano
Del panorama diocesano, ovviamente, fanno parte le parrocchie, di cui ho parlato nel numero precedente. Ora vorrei dedicare alcuni focus ai seguenti ambiti: il presbiterio, i diaconi permanenti, il seminario, i ministri e gli operatori pastorali, la vita consacrata, le varie realtà ecclesiali.
Il presbiterio riminese è formato da un numero, ancora discreto, di sacerdoti formati, ben preparati, interamente votati alla causa del regno di Dio e della cura delle anime. Sì, possiamo disporre di preti intelligenti, generosi, fedeli che danno la vita giorno dopo giorno per illuminare, sostenere, accompagnare il cammino delle comunità loro affidate. Certamente il mondo è cambiato e continua a cambiare vertiginosamente. Noi pastori – compreso il vescovo! – siamo stati formati più per una pastorale da “cura d’anime” che di missione. Inoltre ci riesce meglio condurre una parrocchia da singoli – “un campanile, un parroco” – che non fare un “gioco di squadra”. Questo ci richiede una “conversione missionaria”, che non è né facile né indolore. Ma non è neanche impossibile, se in noi è viva e vegeta l’anima di ogni apostolato: la fede, intesa e vissuta come amore ardente per il Signore Gesù e per la sua Chiesa. Del resto non tocca anche a genitori, insegnanti, professionisti intraprendere un “secondo viaggio” nella vita? Comunque, a noi pastori di questa generazione, è chiesto – e ci è donato – di tentare una virata, decisa e coraggiosa, nella direzione di una pastorale più integrata e meno conservatrice, che – non possiamo illuderci – ci costerà molto, ma – come già ci è dato di vedere da alcune positive esperienze in corso – ci assicurerà un ritorno molto più consistente del pur cospicuo investimento.
Il seminario in questi ultimi cinque anni si è mantenuto pressoché costante nel numero complessivo dei seminaristi (attorno alla dozzina), anche se, mentre è cresciuto il numero dei nostri alunni al Regionale di Bologna, è diminuito il numero di quelli presenti nel nostro seminario “Don Oreste Benzi” di Rimini. In particolare è da notare che, nel flusso degli ingressi-ordinazioni, l’anno scorso non è entrato nessun seminarista e quest’anno non abbiamo avuto alcuna ordinazione presbiterale. Inoltre il fatto del progressivo assottigliarsi del numero degli alunni presenti a Rimini è stato uno dei motivi che ci hanno indotto alla decisione, sofferta ma obbligata, di chiudere il biennio, per mandare i nostri seminaristi, direttamente a Bologna. Il nostro seminario resta però non solo la sede del propedeutico, ma anche il centro propulsore della pastorale vocazionale, che merita di essere più sostenuta e coltivata da parrocchie, comunità religiose e aggregazioni ecclesiali. Siamo infatti convinti che il seme delle vocazioni viene sparso a piene mani dal buon Seminatore, ma tocca a noi “pregare il Signore della messe”, arare il terreno e coltivare i primi germogli di una vocazione.
In questi anni ha continuato a fiorire il carisma-ministero del diaconato permanente secondo una figura propria e non derivata rispetto a quella del sacerdote, ma coordinata con il suo ministero, nella prospettiva dell’animazione del servizio su tutti i fronti della vita ecclesiale. Si va anche diffondendo la figura del diacono che cura una comunità inserita in una unità o zona pastorale, nel contesto del progetto della pastorale integrata.
La missionarietà della parrocchia esige che gli spazi della pastorale si aprano anche a nuove figure ministeriali, riconoscendo compiti di responsabilità a tutte le forme di vita cristiana, a tutti i carismi che lo Spirito suscita. Figure nuove al servizio della parrocchia missionaria si stanno formando e dovranno diffondersi: nell’ambito catechistico e in quello liturgico, nell’animazione caritativa e nella pastorale familiare, ecc. Non si tratta di fare supplenza ai ministeri ordinati, ma di promuovere la molteplicità dei doni che il Signore offre e la varietà dei servizi di cui la Chiesa ha bisogno. Una comunità con pochi ministeri e senza un laicato corresponsabile non può essere attenta a situazioni tanto diverse e non può diventare effettivamente missionaria.
La situazione della vita consacrata, che ha conosciuto un passato di notevole rilievo nella vita della nostra Diocesi, è mediamente quella dell’Italia settentrionale e della nostra regione, in particolare. La secolarizzazione pervasiva, l’innalzamento dell’età media, la fatica nel portare avanti tante opere benemerite, l’aridità vocazionale: sono prove che affliggono dolorosamente quasi tutte le comunità religiose femminili e, soprattutto, quelle maschili. Si rilevano però qua e là sforzi generosi e tenaci di rinnovamento, nella linea della radicalità evangelica e della riforma conciliare. Un segnale di speranza per il futuro della vita consacrata nella nostra diocesi va riscontrato nel rigoglioso sviluppo della comunità di Montetauro. Una riflessione a parte dovrebbe essere fatta sia sugli istituti secolari – ai quali auguriamo coraggioso rinnovamento e maggiore slancio apostolico – sia sulle nuove, vivaci e attrattive forme di vita consacrata, come le tre comunità di Memores Domini (CL). Inoltre meritano di essere accolti con stima e simpatia i primi germogli dell’Ordo Virginum. Speriamo che l’anno della vita consacrata, annunciato da papa Francesco per il 2015, possa aiutare tutte le comunità e le persone consacrate a riscoprire – e a far riscoprire alla nostra Chiesa diocesana – il ‘genoma’ di questa preziosa e insostituibile forma di sequela evangelica.
La nostra diocesi ha ricevuto l’incalcolabile dono, negli anni passati, di una vivace fioritura di movimenti e di nuove realtà ecclesiali (penso in particolare a Comunione e Liberazione e alla PapaGiovanniXXIII), insieme alla buona ripresa di associazioni nate prima del Concilio, come l’Agesci e l’Azione Cattolica. Grazie all’ottimo servizio reso dalla Consulta per le Aggregazioni Laicali, i rapporti al loro interno sono sereni e costruttivi, ma si può e si deve crescere ancora nello slancio missionario e nella integrazione, convinta e coinvolta, di persone e comunità, nella pastorale organica della nostra Chiesa. Permettetemi di ritornare sull’AC: non lo faccio per nostalgia di passate appartenenze privilegiate o per vago sentimentalismo, ma per intima convinzione e in cordiale comunione con i confratelli vescovi italiani, che continuano a riconoscerla come una associazione che, per la sua dedizione stabile alla Chiesa diocesana, merita di essere promossa, come scuola di santità laicale, in ogni parrocchia. In tal senso invito il centro diocesano a proporre adeguati itinerari formativi e a mettere a disposizione persone disponibili ad accompagnare la nascita e la crescita di nuovi gruppi associativi.
2. GUARDIAMO IN ALTO
Incominciamo con un esercizio spirituale: contempliamo l’esistenza cristiana allo stato nascente. In concreto prendiamo il primo documento scritto del Nuovo Testamento, la prima Lettera ai Tessalonicesi, datata intorno agli anni 50-51 d.C. Il racconto della fondazione di questa comunità si trova negli Atti degli Apostoli, al capitolo 17. Facciamo riferimento al primo capitolo di 1Ts 1,1-10, dove ci viene dato di contemplare una comunità ideale per cogliere l’esistenza cristiana nelle sue componenti fondamentali: la memoria delle origini, la responsabilità per la missione, la chiamata e l’attesa della venuta del Signore.
2.1. La memoria delle nostre origini
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace. 2Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere 3 e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. 4Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. 5Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
Paolo non finisce di stupirsi per quanto è accaduto nella missione in Macedonia e in Acaia: in pochi anni la comunità cristiana di Tessalonica, dopo un inizio travagliato (cfr At 17,1-9), è diventata una ‘Chiesa’ rigogliosa e fiorente, per cui l’Apostolo può “rendere sempre grazie”, può ricordare quei fratelli e sorelle “nelle preghiere”, può “tenere continuamente presenti la loro fede operosa, la loro carità attiva, la loro costante speranza” (vv. 2-3). Questo è l’atteggiamento di cristiani che si vogliono veri figli della Chiesa: stupore e gratitudine. Lo stupore, per il dono incredibile ricevuto nel battesimo: l’essere stati generati alla nuova vita in Cristo. E la gratitudine, perché si tratta di un “dono donato”, non meritato o conquistato, non conseguito a forza di precetti adempiuti o di sforzi effettuati. Ogni cristiano può dire: “Io non sono padre del mio io. Non mi sono autogenerato”. Nella Chiesa non esiste l’autogenesi. La gratitudine per essere stati generati è indispensabile per non lasciarsi infettare dai germi patogeni dell’autoreferenzialità, del clericalismo e di un subdolo protagonismo. Il primato della grazia plasma in noi gli stessi sentimenti del Figlio – soprattutto l’umiltà – e la gratitudine forma nel nostro cuore una gratuità limpida e generosa. Così passiamo dalla religione del dovere alla religione dello stupore. E così la Chiesa si rinnova. La Chiesa è una vera madre: quando genera nuovi figli, si rigenera.
Ma qual è il vero ‘sito’ della Chiesa tessalonicese? Paolo non parla di Chiesa che è a Tessalonica, ma scrive testualmente “la Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù”. Le radici della Chiesa sono in alto, nella santa Trinità. Se noi riuscissimo a guardare la nostra Chiesa, che è in Rimini, in controluce, vedendo che le sue radici non sono piantate qua, nel nostro territorio, ma sono piantate in alto, nel cuore di Dio! Se noi ci rendessimo conto e ci ricordassimo sempre che il vero ‘contenitore’ della nostra Chiesa non è tanto lo spazio geografico in cui la Chiesa di Rimini è collocata, allora ci renderemmo conto che la Chiesa non è tanto uno spazio, quanto piuttosto una relazione: con Dio e tra di noi. Allora riusciremmo a vedere la Chiesa come la vede Gesù, come la vede Dio Padre: nella luce dello Spirito Santo. Altrimenti ci mettiamo a contare le rughe del suo volto. Ma è o non è nostra madre? La nostra madre terrena non era o non è la più bella di tutte le donne: non era Miss Italia o Miss Mondo, però era nostra madre. Tu non ami la Chiesa se la vedi bella, ma la vedi bella se tu la ami.
Ora ci chiediamo: quali sono i fondamenti dell’esistenza cristiana? Sono la fede, la speranza, la carità. La fede deve essere “operosa”. Infatti “la fede, se non è seguita dalle opere, è morta” (Gc 2,17). Ma quale è la fede morta? E’ la fede ridotta a formalità, a convenzione, non è la fede basata sulla convinzione. La vera fede è radicata sull’evento: Gesù ci ha chiamato a credere e noi gli abbiamo risposto consegnandogli la nostra persona totalmente e liberamente. E la nostra vita è cambiata, perché ormai non possiamo più fare a meno di Gesù: di pensare come lui, di amare come lui, di agire come lui. Oggi sta tornando il tempo delle conversioni. Certo, non sono una folla, ma vanno aumentando quanti desiderano passare da un cristianesimo di convenzione a un cristianesimo di convinzione, da una fede per abitudine a una fede per scelta. Ma noi che ne abbiamo fatto del rito per il catecumenato degli adulti (R.I.C.A.)? Siamo convinti che l’itinerario lì proposto non vale solo per i battezzandi, ma – con gli opportuni adattamenti – vale anche per i battezzati che desiderano ricominciare a credere. Cosa stiamo facendo per attivare percorsi di primo o secondo annuncio?
Il pilastro centrale dell’edificio ecclesiale è la carità, che san Paolo qualifica come faticosa. E così è, altrimenti la carità si riduce a zuccheroso tenerume o a vaga filantropia. La carità nella Chiesa presenta un duplice versante: uno è quello della carità fraterna, l’altro è quello della carità verso il prossimo bisognoso, specialmente se povero, oppresso o emarginato. La carità fraterna è indispensabile per poter dare una testimonianza credibile della ricerca dell’unità, secondo la preghiera di Gesù: “Padre che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda”. Questa comunione fraterna viene continuamente declinata nel Nuovo Testamento con verbi di fatica. Ad esempio: “Sopportatevi gli uni gli altri, perdonatevi gli uni gli altri, accoglietevi gli uni gli altri, salutatevi gli uni gli altri” ecc. Anche la carità verso il prossimo richiede la fatica di un coinvolgimento non puramente emotivo, ma effettivo e concreto, come insegna la parabola del buon Samaritano: il prossimo è colui che tu vedi nel bisogno, ne provi compassione e ti ci fai vicino, appunto ti ci fai prossimo: “lo vide, ne ebbe compassione, gli si fece vicino” (Lc 10,33s). Non è possibile farsi prossimo (= farsi vicino) se non si prova compassione, e non è possibile provare compassione se prima non si è guardato il il bisognoso con gli occhi del cuore.
Il terzo pilastro è la speranza, che san Paolo abbina alla “fermezza”. Sappiamo che l’attesa della venuta del Signore era molto viva presso le prime comunità cristiane, al punto da scatenare il contagio di una vera e propria “febbre escatologica”. L’ultima venuta del Signore non generava ansia angoscia, ma suscitava una speranza incrollabile: il Signore glorioso avrebbe portato salvezza, libertà, pace ed eterna beatitudine. L’attesa di essere felici faceva nascere la felicità di essere nell’attesa. Nella nostra società dove è morto il desiderio, non siamo chiamati noi cristiani a dare testimonianza di una indefettibile speranza?
Ecco il segreto dell’esistenza cristiana: l’elezione: Dio ci ha scelti, benedetti, predestinati, chiamati, giustificati (cfr Ef 1,3ss), in una parola ci ha amati: Paolo si rivolge ai cristiani chiamandoli “fratelli amati da Dio” e “scelti da lui” (v. 4). Questo amore è all’inizio della nostra vita nella Chiesa: non l’amore nostro verso Dio né l’amore nostro verso i fratelli, ma l’amore di Dio verso di noi e i nostri fratelli. Infatti “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). Ecco come Gesù costruisce la Chiesa: con le pietre vive che siamo noi, non perché noi eravamo già pietre vive, ma perché lui ci ha resi tali. Noi siamo fatti così: un giorno, il Signore, camminando, ha inciampato in un ciottolo tutto malfatto, l’ha guardato con tenerezza, l’ha scelto e scalpellato con tanto amore, e l’ha incastonato tra le altre pietre. Poco importa che io o tu siamo stati messi sotto il pavimento e nessuno ci veda. O che, invece, siamo stati inseriti in una volta e veniamo ammirati da tutti. Ciò che conta è che siamo là dove il Signore ci ha collocati perché lì lui ci raggiunge con il suo raggio d’amore. Infatti non siamo stati scelti perché eravamo più bravi, più buoni o più belli degli altri. Non siamo stati amati perché eravamo amabili, ma siamo stati resi amabili perché siamo stati amati, e lo siamo stati “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8.10). L’elezione è gratuita: siamo stati scelti ed eletti “a prescindere”, non perché eravamo eleggibili, ma proprio perché non lo eravamo affatto. A chi gli diceva che era un santo, don Oreste ribatteva: “No, io sono uno sgorbio”. Ma Dio è fatto così: sceglie uno sgorbio e ne fa un capolavoro. Prende un pezzo di carbone, che ti macchia e ti sporca le mani; lo getta nell’alto forno al calor bianco e ne ricava un diamante. La coscienza dell’elezione è fondamentale non solo a livello personale, ma anche a livello comunitario: al Signore è piaciuto salvare gli uomini non individualmente, ma “volle costituire di loro un popolo” (LG 9). E’ questa coscienza di popolo che deve essere risvegliata nella Chiesa: noi siamo – non per nostro merito ma per pura grazia – il nuovo popolo eletto da Dio per la nuova ed eterna alleanza. Noi siamo “coloro che nella fede guardano a Gesù” (ivi). Questo popolo ha per capo Cristo, per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, per legge il precetto dell’amore, per fine il regno di Dio. Noi siamo chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo. Se non recuperiamo la coscienza di questa elezione e di questa missione, siamo condannati a diventare comunità cristiane “sciape e spente”. Ma se questa coscienza si ridesta, allora non correremo il rischio di ridurci a retroguardia assistenziale, ma diventeremo umile e coraggiosa avanguardia profetica.
2.2. La responsabilità della nostra missione
6E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, 7così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. 8Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
Dal Signore a Paolo, da Paolo ai Tessalonicesi, dai Tessalonicesi a “tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia”: è la ‘catena’ della testimonianza. Il testimone è uno che risponde a una Parola che lo precede e ne risponde con la vita. E’ colui che dona e dice a qualche altro ciò che ha reso più umana la sua vita. Nel testo di Paolo, la testimonianza colora la vita del testimone come ‘imitazione’: Paolo è testimone-imitatore di Gesù come Gesù lo è del Padre. I Tessalonicesi, imitando Paolo, sono allora volta diventati ‘modello’ per tutti i credenti. Gesù Cristo – ricordava Kierkegaard – è venuto sulla terra non per farsi ammirare, ma per farsi seguire e imitare.
“Quando non c’è alcun pericolo, quando regna la calma e quando tutto sta in favore del cristianesimo, è fin troppo facile scambiare l’ammiratore con l’imitatore, e con tutta tranquillità può accadere che l’ammiratore muoia nell’illusione di aver scelto la strada giusta. Attenzione quindi alla contemporaneità” (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, Roma 1971, p. 302).
La vita come imitazione di Cristo: l’imitazione ci rende contemporanei di Gesù, o meglio, ci chiede la scelta della fede, per cui Gesù non si riduce a fossile di un passato remoto, ma si rende presente a noi e si fa nostro contemporaneo.
Ma da che cosa si riconoscono dei cristiani testimoni-imitatori di Cristo? Nella Lettera a Diogneto, un testo antichissimo (del II secolo) si legge testualmente: “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per vestito”. Ma si riconoscono. Da che cosa dunque si riconoscono?
I cristiani si riconoscono da come vivono il quotidiano. Abitano case in condomini o in quartieri, come tutti, ma non fanno della casa l’idolo della loro vita. Le loro case si riconoscono dal clima che vi si respira, dalla sobrietà dell’arredo, dalla funzionalità alla famiglia numerosa e all’ospitalità, dalla presenza di segni religiosi, con la Bibbia e il Crocifisso in bella evidenza. I cristiani coltivano buoni rapporti con il vicinato e non mostrano alcuna propensione alle liti di condominio o alle cause civili. Inoltre i cristiani sperimentano, come tutti, che ogni giornata è una corsa contro il tempo. Il lavoro, il traffico, le anticamere, le code prosciugano le riserve della pazienza, azzerano le risorse della gratuità,sclerotizzano l’elasticità nell’affrontare contrattempi e imprevisti. Ma riuscendo a trovare il tempo per la vita di fede, come la preghiera e l’attenzione ai poveri, i cristiani riescono a vivere la fede nel tempo, e affrontando ogni giornata come fosse l’ultima, sono sempre in attesa del Signore che viene, e di conseguenza sono liberi e sciolti nell’uso dei beni terreni.
I cristiani si riconoscono da come vivono il lavoro. I discepoli di Cristo lavorano come tutti, ma lavorano per vivere, non vivono per lavorare. Sono liberi dall’ansia di produrre e dall’avidità di possedere. Non sacrificano al lavoro i beni primari, come l’armonia nella coppia, l’attenzione ai figli, l’assistenza ai genitori anziani. Se sono imprenditori, tengono sempre presente che l’uomo viene prima del lavoro e il lavoro prima del capitale. Oltre al giusto trattamento economico, assicurano ai lavoratori una dignitosa qualità della vita e li trattano come corresponsabili dell’impresa. Se sono lavoratori, non cadono nella piaga dell’assenteismo e, in caso di lotta sindacale, non si schierano contro qualcuno, ma sempre e solo per la giustizia.
I cristiani si riconoscono da come vivono il rapporto con i soldi. Il denaro è un pessimo padrone, ma può essere un buon servitore, purché lo si usi con distacco, purché si viva con sobrietà, si evitino scorciatoie nel guadagno, mondanità nella spesa. Se invece, avendo di che mangiare, di che vestire e una casa da abitare, i cristiani non sono contenti, è segno che qualcosa nella loro fede non va. I cristiani sanno che, se non pagano le tasse, violano il settimo comandamento che vieta di rubare, e sono coscienti che occorre il massimo scrupolo nella pronta e piena retribuzione dei dipendenti. Ma soprattutto sanno che il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri.
I cristiani si riconoscono da come vivono gli affetti. I discepoli di Cristo non cedono né alle sessuomanie né alle sessuofobie. Sanno che l’amore tra l’uomo e la donna è uno dei più grandi doni di Dio e viene da lui consacrato nel sacramento del matrimonio. Scelgono di sposarsi “nel Signore” e solo nel matrimonio ritengono lecito il pieno esercizio della vita sessuale, ma si dissociano da ogni forma di disprezzo per le ragazze madri, i divorziati risposati, i conviventi, gli omosessuali. I cristiani rispettano e difendono la vita: per questo dicono no all’aborto e all’eutanasia.
I cristiani si riconoscono da come vivono la fragilità. Non si illudono né pretendono che la protezione del Signore li risparmi dalle prove della vita, dalla croce di limiti, di crisi, dalla malattia e dalla morte, ma non disperano mai, anzi si abbandonano al misterioso ma sempre benevolo disegno del Padre, nella certezza che Dio può ricavare un bene infinitamente più grande anche dal male più atroce. Credono che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio” (Rm 8,28).
I cristiani si riconoscono da come vivono la festa e ogni domenica. Per loro la domenica non è il week-end, ma il giorno del Signore. Le vacanze di Pasqua non sono l’occasione per andare in crociera, ma per partecipare in chiesa alla passione e risurrezione di Gesù, e per rivivere il loro battesimo. Con il riposo settimanale noi cristiani dedichiamo il tempo all’incontro con il Signore e con la comunità cristiana nell’eucaristia; facciamo spazio alla comunione in famiglia, alla relazione con il creato, alla solidarietà con i poveri.
Infine i cristiani si riconoscono da come vivono la passione e l’impegno per la cittadinanza. Il sentirsi pellegrini in cammino verso la Gerusalemme celeste non li rende latitanti o indifferenti circa le sorti della città terrena. Sanno di essere obbligati in coscienza a osservare le leggi giuste, a partecipare responsabilmente alla vita civile sociale e politica, a contribuire al bene comune, per la crescita integrale di ogni uomo e dell’intera società. Quando assumono democraticamente responsabilità politiche e amministrative, hanno a cuore il disinteresse personale; rifiutano concussione, corruzione e voto di scambio; non cedono al ricatto dei poteri forti e di quelli occulti; fanno proprie le necessità dei poveri; non ricorrono alla menzogna e alla calunnia come strumento di lotta contro gli avversari; rispettano tutti, a cominciare dai fratelli nella fede che appartengono ad altri schieramenti.
2.3. L’attesa del nostro futuro
Sono loro a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero 10e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
Missione non è fare colpo, non è fare propaganda, ma è fare mistero, è dare testimonianza del mistero che ci precede e ci avvolge. Il testimone è un poveraccio, il quale – non nonostante, ma proprio perché – si sente amato dal Signore. E dà testimonianza non della propria bontà, santità e fede, ma dell’amore del Signore per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni se crediamo davvero che noi siamo gli amati dal Signore. La testimonianza non si può dare solo a livello personale, ma anche e soprattutto in modo comunitario ed ecclesiale, perché quello che induce gli altri a credere è vedere non solo come io vivo, ma come noi viviamo tra di noi. Questa è la testimonianza, è la missione. Quindi noi rendiamo testimonianza non tanto del nostro amore per gli altri o per Dio, ma dell’amore che Dio ha per noi. Il nostro amore per gli altri è sempre troppo poco; gli altri hanno bisogno di sentirsi amati dal Signore, il quale ci ha amati fino all’estremo, fino a dare la sua vita per noi.
Gli ultimi due versetti del primo capitolo del primo testo scritto del Nuovo Testamento ci presentano un tratto folgorante del nucleo incandescente del centro vivo del Vangelo. L’annuncio di Gesù (“Il regno di Dio è vicino: convertitevi!”) è ormai diventato l’annuncio su Gesù nella catena della tradizione-trasmissione dei suoi discepoli (“sono loro a parlare di noi”). Fin quando i credenti non “saranno loro a parlare” per raccontare ciò che hanno ricevuto dall’apostolo, l’evangelizzazione sarà solo un programma e non la testimonianza di un incontro. L’esistenza cristiana è risposta a una chiamata a conversione, e la conversione implica sempre un allontanamento dagli idoli mondani e un rivolgimento costante al Dio vivo e vero. La vita nuova si declina allora in servizio, e a sua volta il servizio si traduce in attesa della venuta del Signore risorto. In una parola, il genoma dell’esistenza cristiana è costituito da tre fattori: conversione, fede e attesa del Risorto.
3. GUARDIAMO AVANTI
Alziamo lo sguardo e guardiamo avanti. Per scrutare l’orizzonte che ci attende, vorrei proclamare una beatitudine, segnalare un pericolo, esprimere una certezza, rivolgere un appello, assegnare un compito.
Una beatitudine. “Beati i cristiani inadeguati, perché apparirà in essi la potenza di Dio”. E’ e resta vero che noi portiamo un tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza appartiene a Dio, e non viene da noi (cfr 2Cor 4,7). Beati perciò i cristiani che non sono e non si sentono all’altezza. Noi ci sentiamo sproporzionatamente insufficienti rispetto alla fiducia che il Signore ancora non si stanca di accordarci. Non siamo abbastanza uniti, abbastanza fedeli, abbastanza santi, abbastanza aggiornati e capaci. Ma è proprio per questo che il Dio dell’impossibile viene in aiuto alla nostra debolezza, dalla quale egli sa trarre tutta la forza di cui abbiamo bisogno per corrispondere alla sua fiducia.
Un pericolo. La situazione che stiamo attraversando ci chiede risposte oneste a una domanda assillante: il declino numerico dei credenti si trasformerà in declino spirituale? Non sta scritto da nessuna parte che i cristiani debbano essere numericamente la maggioranza presente nel mondo. Quello che ci rende sale della terra non è il fatto che siamo tantissimi granellini, ma che quei granellini sono sale-sale, e non sale sciapo. Noi siamo un pugno di lievito. Allora il diventare di meno, paradossalmente, potrebbe costituire una opportunità, non perché ci consoliamo con il solito “pochi, ma buoni”, ma perché ci rendiamo conto che non è il successo numerico la nostra forra, bensì l’amore che il Signore ci riserva.
Una certezza. Nessuno ha la soluzione decisiva e definitiva dei problemi, ma la soluzione viene donata dallo Spirito Santo a chi la ricerca nella fraternità. Questo è un invito cordiale, fratelli preti, che rivolgo innanzitutto a voi. Non è un giudizio nei vostri confronti, ma vi prego: aiutiamoci insieme, e sosteniamoci anche con un pizzico di umorismo e di sana autoironia. Infatti possiamo serenamente ritenere – o perlomeno sospettare – che le nostre idee non sono sempre così vere come ci piacerebbe credere. E che le idee degli altri non sono poi così errate come ci piacerebbe far credere. Piuttosto è nel rispetto, nella carità, non nella rissosità e nel giudizio sprezzante, che troviamo la via che il Signore ci indica e ci apre davanti. Ricordiamo l’antico aforisma: liberi nelle cose dubbie, uniti nell’essenziale, ma al disopra di tutto vi sia la carità.
Un appello. La fiducia nella presenza di Gesù Risorto aiuti la barca della nostra Chiesa nella traversata: “Teniamo fisso lo sguardo su Gesù”. Ricordiamo la scena della barca con i Dodici a bordo, di notte, sul lago in tempesta. Gesù va verso i discepoli, camminando sulle acque. Pietro non crede che sia il Maestro e lo sfida: “Se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Gesù lo invita, e Pietro va verso Gesù, “ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e stava cominciando ad affondare” (Mt 14, 24ss). La traduzione precedente della CEI rendeva questo versetto semplicemente così: “Pietro per la forza del vento contrario”. Giustamente la Nuova ha recuperato quel “vedendo”. Questo è stato lo sbaglio di Pietro: anziché guardare fisso Gesù, si è messo a guardare le onde ribollenti del lago e ha preso paura. L’unico modo per superare la paura è “tenere lo sguardo fisso su Gesù” (cfr Ebr 12,2).
Un compito. A noi tocca coltivare il campo con la fiducia nel buon seme, con la pazienza del contadino, con il vivere da fratelli. Siamo dei semplici servi, soltanto servi. Non servi ‘inutili’, nel senso di servi superflui, ma nel senso di servi che lavorano “senza-utile”, senza alcun guadagno o interesse, e quindi gratuitamente (cfr Lc 17,10). La regola di s. Ignazio è molto saggia, a questo riguardo: dobbiamo fare tutto come se tutto dipendesse da noi, ma dobbiamo anche lasciar fare tutto a Dio, perché tutto dipende da lui. Questa certezza ridimensiona tanti nostri drammi, ci pone nella pace, ci fa dormire sonni tranquilli, perché tanto è il Signore che costruisce la casa. E’ lui che ci procura il pane, anche nel sonno.
A conclusione della prima Lettera ai Tessalonicesi, che ci ha fatto un po’ da fil rouge in questa riflessione, san Paolo scrive delle parole, che vi prego di ascoltare: “Fratelli, vi esortiamo: fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, badate che nessuno renda male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi con tutti. E siate sempre lieti, pregate ininterrottamente. In ogni cosa rendete grazie a Dio. Non spegnete lo Spirito, vagliate ogni cosa, tenete ciò che è buono e il Dio della pace vi santifichi interamente Fratelli pregate anche per noi, Salutate i fratelli con il bacio santo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi” (1Ts 5,14ss).
Rimini, Chiesa di s. Agostino, 13 ottobre 2013
+ Francesco Lambiasi