E’ il Gesù del Natale
Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa del Giorno di Natale
Abbiamo ascoltato le parole più solenni e scandalose che mai siano state proclamate riguardo ad un uomo, sotto il cielo: “Il Verbo – quel Verbo che era in principio, presso Dio, e Dio in persona – si fece carne”. Il Verbo è la Parola per mezzo della quale Dio ha fatto tutto, è il Figlio unigenito del Padre, è la Vita del mondo, la Luce degli uomini. Riascoltiamo ora di nuovo la più strabiliante di tutte le news: l’evento assoluto si è compiuto: la Parola è divenuta carne. Le sponde più distanti nell’oceano sconfinato dell’essere – Parola e carne – si sono abbracciate e ‘con-baciate’. Accostandosi al prologo di Giovanni evangelista – un inno per il quale l’aggettivo ‘sublime’ non risulta affatto sprecato – si ha l’impressione di aggirarsi ai piedi di un massiccio altissimo, che svetta oltre le nubi. Si viene afferrati da uno stupore intraducibile, si è come ghermiti da una incontrollabile sensazione di vertigine. Ma qui e ora il monte si è abbassato, qui e ora il Mistero indicibile si è rivelato, qui e ora la Parola ha rotto il silenzio, qui e ora l’Atteso è venuto, qui e ora la Gloria ha preso il volto del Figlio incarnato, qui e ora il Nome impronunciabile di Dio è diventato il santo nome di Gesù di Nazaret. Del Verbo fatto carne, oggi, per grazia, ci è dato di poter dire: “Noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14).
1. Un uomo che è veramente Dio
Ogni epoca, ogni ideologia, ogni corrente di pensiero ha tentato di vestire Gesù con i propri panni: i razionalisti l’hanno rappresentato come il gentleman ideale dell’età vittoriana, i socialisti come il primo riformatore sociale, gli idealisti come la più alta manifestazione dello spirito umano, gli esteti come l’artista geniale della parola. Questo fenomeno si spiega perché l’uomo – forse per il bisogno di misurarsi e di decifrarsi – prende il vangelo come specchio, ma poi finisce per imprestare all’Uomo di Nazaret il proprio volto. Così Gesù viene ridotto ad una misura straordinariamnete umana, ma solo umana. E finisce per perdere i tratti della divinità, per diventare solo il più umano degli uomini, il maestro sapiente e affascinante, il profeta della fratellanza universale, l’amico indulgente di pubblicani e peccatrici o l’intransigente nemico di ogni ipocrisia farisaica. Attraverso una operazione di ‘raschiatura’ si pretende di ripulire l’immagine del Cristo dalle presunte dorature dogmatiche del catechismo, ma poi l’immagine di un ipotetico Gesù ‘al naturale’ viene riavvolta dalle nebbie vaporose delle mitizzazioni di turno, con il risultato di ritrovarsi tra le mani un Gesù primo psicanalista, primo pacifista, primo ecologista, eccetera.
Questa operazione riduzionista è effetto di una idea contrappositiva del rapporto Dio-uomo, Creatore-creatura, Padre-figli. Un rapporto secondo la logica dell’aut-aut, a ‘proporzione inversa’: dove ci sarebbe più Dio, lì ci sarebbe meno uomo, e viceversa. La conseguenza inevitabile sarebbe che proprio per affermare l’umanità di Gesù, gli si dovrebbe amputare la divinità; proprio per evidenziare la carica profetica del suo messaggio, si dovrebbe oscurare la natura sovra-umana della sua persona. Al contrario, battersi per la divinità di Gesù non significa mettere a tacere la voce scomoda del profeta di Nazaret. Proclamare la divinità di Cristo non significa diminuire la forza critica di Gesù uomo e profeta, ma accrescerla a dismisura. Dobbiamo chiederci piuttosto: che profeta sarebbe se non scrutasse il cuore di ogni uomo, compreso l’uomo di oggi, separato da lui da duemila anni di storia? Gesù lo può fare solo se è Dio. E infatti lo fa perché è Dio. Dobbiamo chiederci ancora: che salvatore sarebbe se non potesse salvare l’uomo di oggi? Lo può fare solo se è Dio. E infatti lo fa perché è Dio.
2. Un Dio che è veramente uomo
All’estremo opposto della tendenza precedente, troviamo la posizione di quanti, con la paura che l’attribuzione a Gesù di una esperienza umana integrale comprometterebbe la pienezza della sua divinità, finiscono per non arrivare più a cogliere lo spessore della sua piena e reale umanità. Questa, beninteso, non viene negata, ma è concepita più come un rivestimento esterno di una natura divina, che come realtà umana in tutta la sua verità e completezza. Ma questa idea cozza contro l’affermazione dell’evangelista Luca, il quale per ben due volte afferma che “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,40.52).
Infatti Gesù non è venuto in mezzo a noi come uomo bell’e fatto, come un uomo ‘già imparato’; anzi invece ha passato circa trent’anni a Nazaret, vivendo una vita uguale a quella di tutti e senza che nessuno si accorgesse di lui. Talvolta viene da pensare che questo sia stato necessario per noi, per darci un esempio, non perché questo fosse necessario per la sua crescita e la sua missione. E invece, no: Gesù – come poi si presentò, parlò e agì – è il frutto (anche!) di quei trent’anni di Nazaret, di quell’ambiente e di quella esperienza. Senza quegli anni e quell’ambiente avrebbe parlato e agito diversamente.
Non finiremo mai di dire che Gesù è “veramente e perfettamente uomo”, ma non è un super-man: si muove a compassione dei malati, si fa prendere dalla collera di fronte all’ostinazione dei farisei; prova tenerezza per i bambini; non conosce il giorno del giudizio finale; sperimenta il terrore e l’angoscia di fronte alla morte. Non prendere sul serio queste pagine evangeliche significa ridurre Gesù ad un attore divino che gioca a recitare la parte dell’uomo, senza assumere realmente tutta l’umiltà e la drammaticità della ‘carne’ umana. Alla fine l’incarnazione si riduce fatalmente ad una comparsa di Dio sulla terra e i lineamenti del Nazareno si perdono in dissolvenza fino a ritrovarsi di fronte ad un fantomatico, impalpabile essere celeste, piuttosto che ad un vero uomo in carne e ossa. Ancora una volta l’immagine di Gesù trascolora nel mito: al posto di un Dio vivente fatto uomo, ci si ritrova tra le mani una scialba, deformata immagine di Dio fatta dall’uomo.
Ma nella sua vita terrena, Gesù non è stato solo soggetto alla storia, ma è stato anche un vero soggetto di storia. E pertanto anche per un uomo vero come lui, il futuro è stato futuro, il passato è stato passato: non è che per Lui il futuro fosse chiaro come il passato. Fa parte della dignità di un uomo potere e dovere progettare il proprio destino in un avvenire che si ignora. E se quell’uomo è un credente – come assolutamente più di ogni altro è stato Gesù – allora il futuro nel quale egli si getta e si progetta, viene elaborato e costruito in umile obbedienza e fattiva collaborazione con Dio Padre. “Privare Gesù di questa possibilità – afferma un teologo di indiscussa ortodossia – e farlo camminare verso un futuro completamente conosciuto in anticipo e distante soltanto nel tempo, significa privarlo della sua dignità di uomo” (Von Balthasar).
3. Un Uomo-Dio veramente povero
Ma il Natale è a sorpresa. San Paolo riassume tutta la vicenda dell’incarnazione nella coppia di termini antitetici ‘ricco-povero’: Gesù Cristo “da ricco qual era, si è fatto povero” per noi (2Cor 8,9). Nel Natale noi contempliamo la gloria dell’Onnimpotente, ossia dell’Onnipotente che si rende totalmente impotente. A Gesù non è bastato assumere una natura umana general generica; ha voluto assumere una umana natura povera: bambino povero di un popolo glorioso e decaduto, estraneo alla civiltà vincente del mondo – quella romana – anzi di un paese sottomesso a Roma con le armi. Uomo, dunque: fragile, debole come tutti gli appartenenti alla nostra specie. Con scarsi o, meglio, nulli privilegi umani. E dentro un contesto tale da portarlo alla morte in croce. Questa scelta di Dio a me pare – se mi si perdona il termine – il suo capolavoro. Il miracolo del suo amore “per noi uomini e per la nostra salvezza”: un amore infinito come la distanza tra la perfezione divina e l’imperfezione umana, attraversata dal dolore. E il dolore Dio lo prende su di sé, nascendo uomo, nella sua densità fisica – con il culmine sulla croce – e nella sua intensità morale – i tradimenti, gli abbandoni, le delusioni. Perché ciascuno di noi, il più sventurato, lo possa sentire fratello nel dolore.
Chinandosi sul mistero di Betlemme, Charles de Foucauld si domandava: “Se c’è qualcuno che può contemplarti nella grotta continuando ad essere ricco, non so: io non posso”.
E io vescovo, tu sorella, tu fratello, noi tutti cristiani di questa terra riminese, magnifica e dolorosa, noi cosa diciamo?
Rimini, Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2013
+ Francesco Lambiasi