Un Dio così grande da farsi bambino
Omelia del Vescovo per la Messa della Notte di Natale
Chi frequenta abitualmente scritti, omelie e interventi vari di papa Francesco inciampa ad ogni passo in parole che vanno diritte al cuore, come: bontà, speranza, custodia, servizio, periferie. Ma tra tutte, le prime voci in graduatoria nel vocabolario papale sono senz’altro: misericordia e tenerezza. Ecco il lampo di due citazioni: “Non abbiate paura della tenerezza”. Un’altra frase del vescovo di Roma basta sentirla una sola volta, che ci resta subito scolpita in cuore: “La Chiesa è misericordia, non tortura”. E’ da notare che misericordia e tenerezza sono due parole intercambiabili, al punto che nella nuova traduzione dei salmi, là dove prima si leggeva ‘misericordia’ oggi si legge ‘tenerezza’ (come ad esempio nel Salmo 103,11.13). Forse si potrebbe dire semplicemente che la tenerezza è il filo d’oro di cui è intessuta l’umile stoffa della misericordia.
1. Ecco, il Natale è l’epifania della gratuita tenerezza di Dio, è la trasparenza della sua generosa e premurosa misericordia. Nella seconda lettura abbiamo ascoltato: “E’ apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini” (Tt 2,11). Poco più avanti nella stessa lettera si legge: “Sono apparse la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini” (Tt 3,4). A Natale registriamo l’apparizione (‘epifania’) di questi tre segni di riconoscimento della ‘carta di identità’ di Dio: grazia, bontà, amore.
Innanzitutto, la grazia, ossia la più pura e assoluta gratuità della misericordia. Non c’è nessuna causa dietro l’amore di Dio, che ne determini l’origine; nessun obiettivo davanti a lui, che ne solleciti l’azione. L’amore divino è autosufficiente: basta a se stesso, come il fuoco che non può non ardere o il sole che non può non risplendere e riscaldare.
Il secondo tratto specifico dell’identikit di Dio è la bontà, la sollecita, concreta, delicata benevolenza di Dio. Dio è stato buono con noi non perché noi eravamo buoni con lui, ma siamo stati resi buoni con lui perché Dio è stato buono con noi. In due parole: siamo stati amati ‘a prescindere’, amati e basta. “Anche noi un tempo eravamo stolti, ribelli, corrotti, schiavi di molte passioni e di desideri malvagi. Vivevamo nella cattiveria e nell’invidia: odiosi agli altri e odiandoci a vicenda” (Tt 3,3).
Il terzo tratto identificativo della ‘deità’ di Dio è il suo “amore per gli uomini” (letteralmente, in greco filantropia, lat. ‘umanità’): “Noi non abbiamo fatto nulla che potesse piacere a Dio, ma Dio ci ha salvati perché ha avuto compassione di noi” (Tt 3,5). Tre tratti – grazia, bontà, amore – un solo volto, quello della tenerezza di Dio. Nel piccolo Bambino di Betlemme risplende la dolcissima misericordia dell’Altissimo. Una misericordia che è un brivido di commozione per la miseria dei suoi figli, che prende Dio al grembo e non si identifica né con la pura autocostrizione psicologica né con la semplice autocoerenza giuridica. La misericordia sta a dire coinvolgimento interiore, partecipazione ‘sim-patica’ e cordiale alla sofferta vicenda della persona cara, fino a considerare inconcepibile e del tutto intollerabile anche la sola idea che la persona amata si possa rovinare e irrimediabilmente perdere.
2. Ma nel vangelo del Natale ricorre un’altra parola – gloria – che sembra smentire del tutto le parole calde e commoventi finora citate: misericordia, tenerezza, bontà, amore. Quando l’angelo del Signore si presentò ai pastori “la gloria del Signore li avvolse di luce”. E dopo che l’angelo ebbe dato loro l’annuncio, “apparve una moltitudine dell’esercito celeste, che diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. Ma cosa significa che nel Bambino di Betlemme Dio fa trasparire la sua gloria?
Nella Bibbia ebraica la parola che significa gloria implica l’idea di peso. Il peso di un essere nell’esistenza definisce la sua importanza reale, e, di riflesso, la stima che suscita e il rispetto che ispira. Per la lingua ebraica, a differenza del greco e delle lingue moderne, la gloria non indica tanto la fama, quanto il valore oggettivo di una determinata realtà, stimato dal suo peso. L’espressione ‘gloria di Dio’ designa Dio stesso in quanto si rivela nella sua radiosa maestà, nella sua sconfinata potenza, nello splendore abbagliante della sua santità, nel vorticoso dinamismo della sua incontenibile energia. Ma la mentalità semitica non concepisce nessuna realtà consistente, ‘pesante’ che non sia al tempo stesso ‘sfolgorante’. La gloria di Dio, che scintilla sulle cose create e risplende negli interventi salvifici di Dio, è l’irradiazione sfavillante della sua inarrestabile onnipotenza.
Ma nella mangiatoia di Betlemme la gloria di Dio si è manifestata in modo sorprendente e paradossale: la sua altezza si è abbassata perché la potessimo raggiungere; la sua grandezza si è rimpicciolita perché, nel bambino Gesù, la potessimo abbracciare.
3. Strano abbinamento quello inventato da Dio a Natale: Dio e povertà, fortezza e debolezza, onnipotenza e fragilità. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: “Voi conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: lui che era ricco, si è fatto povero per farvi diventare ricchi con la sua povertà” (2Cor 8,9). Questa è l’idea che dobbiamo farci di Dio: passare dal Dio dei “miracoli facili” al Dio “dalle mani legate”; dal Dio del “ciglio asciutto” al Dio che “singhiozza con te”. Nella debolezza di Dio l’onnipotenza non è esclusa, ma inclusa, nel senso che se Dio non potesse farsi debole, la sua non sarebbe vera e completa onnipotenza. Invece Dio è talmente onnipotente che può anche autolimitarsi, può perfino ‘autoridursi’ e farsi totalmente debole e povero. E’ talmente divino che può perfino farsi umano. La sua non è una superpotenza mondana; è l’onnipotenza dell’amore che si è resa impotente. Ora, l’amore è onnipotente, perché “non verrà mai meno” (1Cor 13,8), quindi alla fine vincerà, non però con la violenza. L’amore non può e non vuole costringere nessuno: se lo facesse, rinnegherebbe se stesso. L’amore non può fare degli uomini quello che vuole, ma, al contrario, sono gli uomini che possono fare dell’amore quello che vogliono. La debolezza del Dio onnipotente è di amare troppo gli uomini, al punto da consegnarsi a loro senza condizioni, senza riserve, senza privilegi e restrizioni.
Strana strategia quella architettata da Dio a Natale. Nulla al mondo, come sappiamo, è più fragile di un neonato: è totalmente dipendente da altri e, lasciato a se stesso, sopravvive soltanto poche ore. A Betlemme Dio non vuole abitare la storia da posizioni di potenza, ma di libertà; non vuole combattere con tattiche di forza, ma di marginalità; non vuole vincere con la pace delle armi, ma vuole stravincere con le armi della pace e della mitezza. Dio non sogna di asfaltarci, ma spasima di ingrandirci; si sacrifica per soccorrerci, non brama di annullarci; non viene a pesare meriti e a distribuire premi e medaglie, viene a rispondere ai nostri reali bisogni.
4. Strana corsia quella imboccata da Dio a Natale: non è nella direzione uomo – Dio, ma in quella inversa: Dio – uomo, cielo – terra, angeli – pastori. Non è un semplice cambio di marcia: è un capovolgimento, una provocante inversione ad U. E’ lo scandalo della misericordia, la rivoluzione della tenerezza. Non è l’uomo che deve arrancare e strisciare pancia a terra per salire verso Dio; è Dio che si impegna a scendere verso l’uomo. Di conseguenza occorre riorganizzare la spiritualità, occorre riconvertirla non attorno all’asse del desiderio umano di Dio, ma a quello dell’amore divino per l’uomo. Prioritaria non è l’attesa di Dio da parte dell’uomo, ma la sorpresa dell’uomo da parte di Dio. E l’uomo non sarà più il gigante del volontarismo o il titano di un ascetismo prometeico, ma l’umile mendicante dell’amore.
Questa rivoluzione della tenerezza passa per la conversione all’umiltà. A Natale Dio si fa piccolo piccolo. Ecco l’umiltà di Dio! Per Dio essere umile non significa tanto sentirsi piccolo, ma farsi piccolo, e non per qualche necessità o interesse personale, ma per puro amore, per chinarsi su noi suoi bambini e sollevarci alla sua guancia (cfr Os 11,4). Forse per tanto tempo la Chiesa, nel suo insieme, ha predicato e rappresentato davanti al mondo la verità del presepe: quel piccolo Bambino è vero Dio e vero uomo. Ora è venuto o forse, meglio, è tornato il tempo in cui la Chiesa deve annunciare l’umiltà del presepe. Questo la nostra Chiesa diocesana deve fare non a parole ma con fatti di vangelo, secondo lo stile di Gesù bambino.
A Natale siamo chiamati non tanto ad ammirare il Dio fatto bambino, ma ad imitarlo, ricordando che “se non ci convertiremo e non diventeremo come bambini, non entreremo nel regno dei cieli” (cfr Mt 18,3).
Auguriamoci e preghiamo che sia veramente buono questo Natale!
Rimini, Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2013
+ Francesco Lambiasi