Omelia tenuta dal Vescovo per la Festa del Patrono
E’ bella la via del cristiano, presbitero e pastore della comunità cristiana: è bella, perché è la via di un poveruomo che ha sperimentato sulla sua pelle uno sguardo di misericordia, dal quale si è sentito avvolto e teneramente abbracciato, come è accaduto per Paolo, convertito da una compassione inaspettata e del tutto imprevedibile. La misericordia che ci è stata accordata non è un privilegio da sfoggiare, né un merito da esibire, né un diritto da rivendicare a bocca rotonda. La misericordia è grazia, dono gratuito, sorprendente, incredibile. E’ bella e felice la via del prete, ma anche scomoda, perché il tesoro di quel dono è portato in vasi di creta, tutt’altro che infrangibili, anzi piuttosto fragili e precari. E’ scomoda, perché non tollera scorciatoie, come ad esempio il credere che basti una predica brillante per entrare nel cuore delle persone o per sfondare il muro dell’indifferenza. La via del pastore è scomoda, anche perché assai faticosa: lo scarto tra la debole capacità aggregante della parola di Dio e la potenza delle parole della cultura dominante è vistosamente abissale e umanamente sconcertante. E’ bella e scomoda la via del prete, ma – non dimentichiamolo mai! – è sempre necessaria, perché, altrimenti Dio si autocostringerebbe a restare muto senza la nostra voce.
1. In questo anno dedicato nella nostra Diocesi alla Parola, vorrei riflettere con voi sul servizio della Parola, che tocca in particolare ai presbiteri-pastori. Nel condividere questi pensieri, mi faccio aiutare da san Paolo, che ci ha parlato poco fa in nome di Dio, nel brano della seconda lettura. Quattro sono le verità che ci sono state appena riproposte.
La prima, preliminare e irrinunciabile: Il sacerdote è anzitutto (primum) ministro della parola di Dio (PdV 26). Così formulata, questa verità non si trova esplicitamente nel brano paolino che abbiamo ascoltato, ma è il “chiodo fisso” dell’Apostolo, è la premessa imprescindibile e determinante di tutta la sua strategia apostolica. Ricordiamo quanto Paolo dice di sé nella prima Lettera ai Corinzi: “Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il vangelo” (1,17). Ma annunciare il Vangelo non è per Paolo un vanto, bensì una impellente necessità, una urgenza incalzante e inderogabile (cfr 1Cor 9,16). La Parola ci porta alla sorgente della vita cristiana: “Il popolo di Dio viene adunato innanzitutto (primum) dalla parola del Dio vivente, che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra del sacerdote” (PO 4). A questo primato del diritto all’ascolto della Parola da parte del popolo di Dio, corrisponde “innanzitutto (primum) il dovere dei sacerdoti di annunciare a tutti il vangelo di Dio” (PdV 26). Per questo, il sacerdote “per primo” deve essere l’uomo della Parola: gli è utile, anzi necessario, conoscere l’aspetto linguistico ed esegetico della parola di Dio, ma gli è indispensabile lasciarsene talmente impregnare in pensieri, parole e opere, in modo da diventare trasparenza viva, in carne ed ossa, del vangelo che deve annunciare. Così quando andrà a predicare, non dirà solo quello che sa sulla Parola, ma quello che sa dalla Parola. Domandiamoci: quanto tempo dedichiamo, noi pastori, ogni giorno all’ascolto della parola di Dio? Inoltre, non è vero che la nostra pastorale è ancora troppo centrata sui sacramenti, mentre il baricentro deve essere l’evangelizzazione? Insomma, a che punto siamo con la conversione pastorale delle nostre comunità che ci richiede di andare incontro a tutti, senza aspettare che siano gli altri a cercarci?
2. La seconda verità riguarda il contenuto del messaggio. San Paolo, nel nostro brano, una prima volta, attesta di “annunciare apertamente la verità” (v. 2) e più sotto esplicita: Noi annunciamo Cristo Gesù Signore (v. 5). Dunque la verità proclamata non è un, sia pur nobile, ma astratto valore umano, come la liberté, l’égalité, la fraternité, ma è una storia, è una persona: Gesù Cristo Signore. La parola, la verità, il vangelo hanno un volto inconfondibile: Gesù, nella sua qualità di Messia e Signore. Gesù è l’assoluta novità di Dio nella storia. Questo è il centro vivo e dinamico del kerygma. E’ stato proprio uno studioso ebraico, il rabbino americano Jacob Neusner a mettere in risalto la coincidenza tra messaggero e messaggio nell’insegnamento di Gesù di Nazaret. Nel suo libro, intitolato Un rabbino parla con Gesù, immagina di essere un contemporaneo di Cristo che un giorno si accoda alla folla al seguito del Nazareno e ascolta il discorso della montagna. Alla sera, in un toccante scambio di idee, riferisce al suo maestro cosa ha capito dal sermone di rabbi Jeshù:
– Maestro: “Ha tralasciato qualcosa (della Santa Legge di Mosè) questo Gesù di Nazaret?
– Rabbino Neusner: “Nulla”.
– Maestro: “Allora, ha aggiunto qualcosa?”.
– Rabbino Neusner: “Sì, se stesso”.
Ecco il capovolgimento operato da Gesù. A differenza di Mosè, di Maometto, di Confucio o di qualunque altro fondatore di una grande religione, Gesù è il messaggero che mette al centro del suo messaggio se stesso. Ma Gesù opera anche un altro capovolgimento, non meno sorprendente. Tutte le religioni dicono che l’uomo deve salire in alto per raggiungere Dio. Solo il cristianesimo dice che Dio, è disceso, lui! dal cielo, per incontrare l’uomo. Tutte le religioni dicono che l’uomo, per esprimere il suo amore verso Dio, deve essere pronto a dare la vita per lui. Solo il cristianesimo dice che il Figlio di Dio ha dato la vita, lui! per noi, sulla croce. Tutte le religioni dicono che, se Dio venisse ad abitare in mezzo a noi, toccherebbe a noi precipitarci a lavargli i piedi e toglierci il pane di bocca per sfamarlo. Solo il cristianesimo dice che Gesù si è abbassato, lui! a lavarci i piedi e ha fatto della sua vita – del suo corpo e del suo sangue – il pane per la nostra fame, la bevanda per la nostra sete. Noi siamo gli “affamati del suo amore”. Noi siamo gli “sfamati dalla sua Parola”.
3. Ma, per dire sì all’annuncio di Cristo – è la terza verità – l’apostolo, e quindi il presbitero, deve dire no al narcisismo rannicchiato e autoreferenziale: Noi non annunciamo noi stessi (v. 5). Prima san Paolo aveva detto: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). E’ indubbio: noi non siamo i proprietari della Parola, ne siamo invece gli umili destinatari, gli indegni messaggeri. Noi siamo i servitori della comunità cristiana (cfr v. 5), non siamo i devoti cultori del nostro Io. Noi coltiviamo la teo-logia, non la ego-logia. Nel servizio alla Parola, per non annunciare noi stessi, per essere veramente profeti e non megafoni della parola di Dio, dobbiamo affrontare la fatica di perforare il testo sacro, andando giù, in verticale, fino allo strato più profondo, oltrepassando superficialità e approssimazioni, superando precomprensioni fuorvianti e interpretazioni riduttive. E questo in un clima di fede, leggendo le Scritture sulle ginocchia della Chiesa. Solo così possiamo rispondere alla domanda: Che cosa debbo annunciare domenica prossima alla mia comunità? Altrimenti all’omelia ci riduciamo a fare gargarismi sulla Parola, anziché “gridare il vangelo con la vita” (Ch. de Foucauld).
4. Arriviamo così alla quarta affermazione di Paolo: noi “non ci perdiamo d’animo” (v. 1). In verità è proprio questo il pericolo per il presbitero, il povero e disarmato operaio dell’Evangelo, il quale deve misurare sulla propria pelle il peso umanamente insostenibile della sua inadeguatezza. Questo pericolo ha un nome triste e sconsolato: scoraggiamento. Quando il prete viene affetto da questo batterio micidiale, allora il rischio di cedere ai compromessi, la tentazione di lasciar perdere o di lasciarsi andare, per non dover soffrire troppo la frustrazione angosciante di una pastorale ripetitiva, scandita da Messe con molti funerali e con pochi battesimi, il rischio di andare in depressione resta sempre in agguato. Lo scoraggiamento, allora, è il malinconico residuato dovuto a desolanti tentativi fallimentari, ad esperienze pastorali in cui si è investito molto, forse troppo, e da cui si è ricavato poco, troppo poco. Allora bisogna lasciarsi scuotere dall’appello accorato di Paolo: “Noi non ci perdiamo d’animo”, perché è “l’amore di Cristo che ci possiede” (2Cor 5,14). L’amore, non il desiderio del successo, non la ricerca di gratificazioni, non la brama vogliosa di medaglie, non l’assillo dell’interesse personale.
A questo punto, mi rendo ben conto che posso aver dato l’impressione di aver imbastito un discorso “per soli preti”, ma devo far notare che questa 2.a lettura ricorre anche nella ordinazione del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi, quindi vale per tutti noi ministri ordinati, ma vale anche per tutto il popolo di Dio che è in Rimini, se la liturgia della Chiesa ce la propone ogni anno per la festa del patrono. Possiamo dire che questo brano di san Paolo, insieme alla profezia di Ezechiele (“Io stesso condurrò al pascolo le mie pecore”), al dolcissimo salmo responsoriale “Il Signore è il mio pastore”), insieme al vangelo del buon Pastore, sono come gli “estratti” della Bibbia, scelti apposta per la nostra Chiesa riminese.
Quest’anno, la festa di san Gaudenzo cade verso la fine dell’Anno della Fede e all’inizio dell’Anno diocesano della Parola. Vorrei allora concludere con una ultima riflessione sul rapporto tra la Parola e la fede. “La fede nasce dall’ascolto”, scrive san Paolo (Rm 10,17). Non nasce dalla carità o dalla santità, e neanche dalla testimonianza. Certo, queste cose contano (ci mancherebbe!) ma il posto centrale tocca alla Parola. In ogni caso, la carità, la santità, la testimonianza hanno bisogno della Parola che spieghi e rinvii a Gesù Cristo, la Parola che era in principio e si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi. Dicendo “la Parola”, non penso a una parola staccata dalla vita, tanto meno penso a una parola vuota. Intendo la Parola di Dio, che chiede di farsi vita nella nostra vita. Occorre perciò riconsiderare il modo di comprendere la testimonianza. Per noi cristiani, dare testimonianza non significa parlare di noi o della nostra comunità, ma di Gesù Cristo. Il testimone della fede non è colui che punta l’indice su di sé e racconta quello che lui ha fatto per Cristo, ma è uno che punta l’indice su Cristo e racconta quello che Gesù Cristo ha fatto (la storia della salvezza), che sta facendo (la presenza della salvezza) e che certamente farà nella sua vita (la promessa della salvezza). Chiedo a san Gaudenzo con voi, per me e per tutti voi, questa grazia per l’Anno pastorale che si apre: la grazia di recuperare fiducia nella forza della Parola. Non è vero che gli uomini sono stanchi di parole: sono stanchi di parole vuote, ma non di parole vere, non della parola di Dio, che permane vera in eterno.
Il mondo fa stupire gli uomini comuni. I cristiani, questi poveri uomini comuni, sfamati da una sola Parola, sono loro che fanno stupire il mondo.
Rimini, Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2013 –
+ Francesco Lambiasi