Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa Crismale
Gli alti silenzi della nostra cattedrale trattengono e subito rilanciano la scena madre del terzo vangelo, una scena da contemplare con gli occhi del cuore. L’evangelista Luca dà la sensazione di averla voluta riprendere quasi al rallentatore, come per farcela partecipare in diretta. Così permette anche a noi di entrare nella sinagoga di Nazaret per consentirci di ascoltare dal vivo la prima dichiarazione ufficiale del giovane profeta galileo, il cui nome era ormai sulla bocca di tutti, in verità più nei dintorni che in patria. Rileggiamo il manifesto che riporta l’autopresentazione di Gesù e che ci è rimasto stampato direttamente sul cuore: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio. Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. La solenne liturgia in corso non è una rappresentazione mimata dell’evento che quel sabato accadde nel piccolo, oscuro villaggio della Galilea, ma è celebrazione del mistero luminoso di Gesù come il Cristo, il consacrato nello Spirito e suo inviato a proclamare l’anno di grazia del Signore.
1. “Cristo” – lo ricordiamo – non è nome di persona, ma titolo attribuito a Gesù, per qualificarlo come il Messia. Letteralmente “Cristo” significa “consacrato”. Di questa consacrazione la liturgia odierna ci presenta la figura, l’evento, il sacramento. Infatti la consacrazione o unzione è una di quelle realtà – come l’Eucaristia e la Pasqua – che attraversano tutte e tre le fasi della storia della salvezza. E’ presente nell’Antico Testamento come figura, nel Nuovo come evento e nel tempo della Chiesa come sacramento. La figura annuncia, anticipa e prepara l’evento, mentre il sacramento lo celebra, lo rende presente, lo prolunga fino a noi, e lo attualizza.
Il brano di Isaia ci presenta l’unzione come figura: la consacrazione del Messia non viene effettuata con olio materiale, ma è una investitura che avviene per mezzo dello Spirito di Dio: “Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione“.
Il Nuovo Testamento non mostra esitazioni nel presentare Gesù come l’Unto o consacrato di Dio, nel quale tutte le unzioni antiche hanno trovato il loro compimento. Quando l’apostolo Pietro sta per battezzare il primo pagano della storia, il centurione Cornelio, riassume l’incipit dell’intera vicenda di Gesù con questa semplicissima dichiarazione: “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret” (At 10,38). Questo evento si verificò al Giordano, quando “il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te ho posto il mio compiacimento” (Lc 3,21s). Si può quindi dire che, se nell’Incarnazione il Verbo “diviene” Gesù, nel battesimo al Giordano Gesù “diviene” il Cristo.
Nella Chiesa l’unzione è presente come sacramento, che ripropone il segno preso dalla figura – l’unzione – e dall’evento del Giordano riproduce il significato. Ecco ad esempio quanto si legge in una antichissima catechesi mistagogica, rivolta ai neofiti:
“Divenuti partecipi di Cristo, giustamente voi siete chiamati ‘cristi’, perché avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo (…). Dopo che Gesù fu battezzato nel Giordano e comunicò alle acque il profumo della sua divinità, ne risalì e discese personalmente su di lui lo Spirito Santo. Anche a voi, quando siete risaliti dalla piscina delle sacre fonti, fu conferito il crisma, che è figura di quello che unse Cristo, cioè dello Spirito Santo” (Catechesi mistagogiche, III, 1 – PG 33,1088).
Questa unzione-consacrazione, come sappiamo, è presente interamente nei sacramenti della cresima e della unzione degli infermi, e come parte di sacramenti, abbiamo l’unzione battesimale e l’unzione nel sacramento dell’ordine, nel suo triplice grado dell’episcopato, del presbiterato e del diaconato.
2. Vorrei innanzitutto parlare dell’unzione battesimale e crismale. Nel brano appena citato san Cirillo di Gerusalemme in buona sostanza diceva che come Gesù divenne pienamente Cristo, cioè consacrato, per la sua unzione nel battesimo al Giordano, così i credenti in lui diventano e sono chiamati ‘cristi’ cristiani, per la loro unzione, mediante la quale partecipano alla unzione di Cristo. Cristiani, per i primi padri della Chiesa, non significava tanto “seguaci della dottrina di Cristo”, come era per i pagani che, per primi, ad Antiochia dettero loro questo nome (cfr At 11,26), ma significava “unti, consacrati”, a imitazione e per partecipazione della unzione di Cristo, il consacrato per eccellenza. “Per questo ci chiamiamo cristiani, perché siamo unti con l’olio di Dio” (Teofilo di Antiochia, Ad Autolico, 1,12).
La conseguenza che scaturisce da ciò è che abbiamo in noi lo stesso Spirito che fu in Gesù di Nazaret. Che gioia dà il pensiero che in me c’è lo stesso Spirito che era in Gesù, nei giorni della sua vita terrena; che colui che fu “il suo compagno inseparabile” (san Basilio) è ora anche il mio compagno inseparabile, il dolce ospite della mia anima. Quando sentiamo una ispirazione, è la voce di Gesù che ci parla, ci consiglia, ci esorta attraverso il suo Spirito. Quando sentiamo il fiotto della preghiera che ci sgorga dal cuore, è lo Spirito di Gesù che prega in noi. Quando ci sentiamo spinti e sbilanciati nel donarci agli altri, a costo di rinunce e di pesanti sacrifici, è lo Spirito Santo che forma in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Ecco il sacerdozio universale o comune, che ci unisce tutti, presbiteri, religiosi e laici. Nella costituzione Lumen gentium del Vaticano II, si legge:
“Per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito santo i battezzati vengono consacrati
a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo per offrire, mediante tutte le
opere del cristiano, sacrifici spirituali… Tutti, quindi, i discepoli di Cristo,
perseverando nella preghiera e lodando Dio, offrono se stessi come vittima viva,
santa, gradita a Dio” (LG 10).
Tutta la vita, non soltanto alcuni frammenti di essa, costituisce la materia di questa oblazione. Le gioie, non meno che i dolori. Gli impegni, non meno che le rinunce. Le angosce, non meno che le speranze. Sacrificio vivente è la vita di un papà o di una mamma, spesa in mille piccole cose per i figli e la famiglia; è la giornata di un lavoratore o di una lavoratrice cristiana, con tutte le ansie, le fatiche e lo stress che il lavoro o la sua perdita implica; è la vita di un giovane e di una giovane che devono affrontare tante lotte per non piegarsi alle seduzioni e ai ricatti del mondo; è la solitudine di tanti anziani, il dolore di tanti ammalati, la discriminazione di tanti immigrati, la miseria di tanta povera gente.
3. Per finire, vorrei accennare alla unzione spirituale nella vita di noi consacrati nel sacramento dell’ordine: vescovo, presbiteri, diaconi. Anche in questo passaggio parlo della unzione spirituale non tanto nella sua accezione oggettiva e sacramentale, ma nell’ordine soggettivo e nel suo significato spirituale; quindi dell’unzione spirituale come stile di vita. Nel Veni Creator lo Spirito Santo viene chiamato “unzione spirituale” perché – si legge in una antica parafrasi dell’inno
“rende soavi e gioiose tutte le tribolazioni del mondo, secondo l’espressione che lo
definisce riposo nella fatica e nella calura riparo: in labore requies, in aestu
temperies” (Ps.-Bonaventura, Compendio della verità teologica, 10).
Quali sono i segni di questa unzione spirituale? Eccone alcuni: un parlare di Gesù e del suo vangelo in cui si percepisce, per così dire, il fremito dello Spirito. Un annuncio che scuote, che convince di peccato, che fa ardere il cuore dei fratelli. Uno slancio nell’esercizio del ministero per cui non si ha paura di affrontare fatiche, di esporsi a rischi e pericoli, pur di testimoniare l’amore a Cristo, di servire il regno di Dio e la sua Chiesa. Unzione spirituale è la determinazione ostinata ad offrire la vita senza stancarsi e senza pentirsi, nella convinzione che “la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa”. E’ la passione o zelo apostolico per cui non guardiamo più alla nostra gratificazione o realizzazione, ma ci preoccupiamo solo di amare Gesù e di farlo amare. E’ quella letizia interiore che ci sostiene anche nelle avversità, che ci rende forti ma mai duri e amari, ci rende dolci ma non arrendevoli e fiacchi. E’ quella santa audacia che ci fa essere ardimentosi ma non temerari, fiduciosi freschi positivi e mai lamentosi tristi e ripiegati. Unzione spirituale è quel sano e solido equilibrio che non ci fa pendolare tra la frustrazione degli insuccessi e la presunzione di mete definitivamente conseguite. E’ quel pieno abbandono alla volontà di Dio che ci fa prendere bene ogni cosa, che permette di scorgere sempre in ogni situazione – nella buona e anche nella cosiddetta cattiva sorte – il lato buono, nella convinzione disarmata e disarmante che “non sono tanto gli avvenimenti ciò che conta nella vita, ma ciò che grazie ad essi si diventa” (E. Hillesum). Perché tutto – davvero tutto – è grazia! Questa adesione alla realtà non è facile. Presuppone un affidamento totale del vivere, che si matura soprattutto nel crogiolo del dolore e nella nudità del fallimento, in una parola nella croce. Il pieno e docile abbandono al disegno di Dio non è facile, ma è possibile, alla scuola di Gesù, seguendolo nel suo affidarsi alle mani forti e tenere del Padre, nell’ora decisiva della sua pasqua. Prendere bene tutte le cose consente di gustare la vita proprio così com’è, riscattandola dalla vacuità e dal non-senso a cui l’insoddisfazione o il lamento finiscono per condannarla.
Tra poco, consacrando l’olio che dovrà servire all’unzione battesimale e crismale e a quella per i vari gradi dell’ordine sacro, il vescovo dirà:
“Questa unzione li penetri e li santifichi, perché liberi dalla nativa corruzione e consacrati tempio della sua gloria, spandano il profumo di una vita santa”.
Che la scia di profumo, che parte dal Giordano, entra nella sinagoga di Nazaret, passa per il cenacolo e attraversa l’intera storia della salvezza, giunga fino a noi e si spanda per tutta la nostra santa e cara Chiesa riminese
Rimini, 4 aprile 2012
+ Francesco Lambiasi