Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della Messa “in cena Domini”
Rimini, Basilica Cattedrale, 21 aprile 2011
E’ giunta l’ora: è l’ora di Gesù, di passare da questo mondo al Padre. Tra poco al momento della consacrazione le rubriche liturgiche ci fanno contestualizzare la formula di rito con le seguenti parole, adattate alla circostanza del giovedì santo: “In questa notte in cui fu tradito, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine, e mentre cenava con loro prese il pane…”. Come nel racconto evangelico, anche nella liturgia il gesto dello spezzare il pane viene interpretato alla luce dell’amore di Gesù e insieme del tradimento di Giuda. Il messaggio è trasparente: nel momento in cui viene tradito (letteralmente: consegnato) Gesù si consegna liberamente alla presa del traditore e dei suoi persecutori. Si incrociano così, nell’ora suprema di Gesù, due linee. Una è quella della consegna sul piano orizzontale: Giuda consegna Gesù al sinedrio, il sinedrio lo consegna a Pilato, Pilato lo consegna ai carnefici. L’altra linea è quella verticale: il Padre consegna Gesù agli uomini, gli uomini lo consegnano alla morte. In breve, riprendendo gli estremi di queste due linee, possiamo dire schematicamente così: Giuda consegna Gesù e Gesù si consegna a Giuda. Il Padre consegna Gesù e Gesù si consegna al Padre. In sintesi, Gesù si lascia consegnare dal Padre alla morte di croce.
1. Sono io il dio del mio io?
Per provare ad avvicinarci alla soglia del mistero grande dell’ora di Gesù, ci può risultare utile monitorare velocemente l’attuale contesto culturale. La modernità aveva inaugurato l’epoca della soggettività come individualità autonoma e sovrana. Gradualmente la soggettività si è pervertita in soggettivismo, e l’individualità è degenerata in individualismo: l’io sovrano si è tramutato in io tiranno, indifferente agli altri, occupato e preoccupato dei propri desideri interpretati come diritti; si è accanitamente concentrato nella gestione della partita doppia dei propri indiscutibili bisogni e dei propri inalienabili interessi. E’ l’ipertrofia del soggetto. Spodestato Dio, l’io ha preteso di autodivinizzarsi, finendo così per ritrovarsi spersonalizzato, frammentato, senza storia e senza memoria, senza futuro e senza speranza, un orfano autocentrato e autoreferenziale: prigioniero di se stesso, sempre più solo e fatalmente più impaurito e più triste. E’ la curva discendente della parabola del narcisismo: quando l’individuo diventa l’assoluto, l’assoluto diventa relativo. Ma quando si elimina Dio, infallibilmente si annulla l’io. La pretesa morte di Dio porta alla reale morte dell’uomo, sia l’uomo-tu che viene ridotto ad alter ego, sia l’uomo-io che non riuscendo più a dire tu, si imprigiona in se stesso e muore per asfissia. “Come Dio, io sono la negazione di tutto il resto, perché io sono per me tutto – sono l’unico. Niente vi è oltre me o sopra di me” (M. Stirner). Ma ponendo l’altro come cosa, l’io finisce per diventare cosa a se stesso, percependosi come realtà da cui fuggire verso l’esteriorità. L’altro entra nel quadro della tua vita perché ti è necessario per la realizzazione dei tuoi scopi, e viceversa. Ma a questo punto la molteplicità degli interessi individuali – paradossalmente tanti quante sono le irriducibili identità – porta inevitabilmente ai conflitti di interesse, e si riproduce la giungla: l’uomo si fa lupo per l’uomo, e si arriva alla guerra di tutti contro tutti. Una manifestazione emblematica di come l’uomo individualista si rapporti agli altri è la prassi dell’amore: in pratica non si amano persone, ma si ricercano piaceri. L’unica via che rimane aperta e percorribile è quella del possesso, ma nella ricerca dell’altro come solo compagno di piacere si conferma la propria malinconica, penosa solitudine. Facendosi estraneo all’altro, il soggetto diventa estraneo a se stesso, e si realizza il detto: mors tua vita mea, nel senso che il massimo interesse è la propria vita intesa come benessere individuale, a scapito di qualsiasi altro, e anche della morte di qualsiasi altro.
Ben diversa la prassi di Gesù: si può riassumere nel detto alternativo al precedente: mors mea vita tua, e cioè la mia rinuncia, il mio sacrificio, il mio ritirarmi è ciò che fa spazio al tu, gli dà respiro e lo fa vivere. Insomma la parola d’ordine del radicalismo è il possesso, quella del cristianesimo è il dono.
2. Gesù libero perché obbediente
Due gesti, due segni schizzano il profilo di Gesù nell’ultima cena. Il primo è quello della lavanda dei piedi. L’evangelista Giovanni lo introduce con enfasi solenne: “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava… cominciò a lavare i piedi dei discepoli”. Da una parte contempliamo un Gesù pienamente consapevole della sua identità di Figlio eternamente e teneramente amato dal Padre. E non nonostante, ma proprio grazie a questa consapevolezza, Gesù si toglie il mantello del rabbi, si cinge i fianchi di un asciugamano e si inginocchia a lavare i piedi sudati e sudici dei discepoli. Viene in mente il passo in cui s. Paolo pennella il ritratto di Gesù come colui che “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6s). Torna alla mente anche l’altro passo paolino, dove si legge che Gesù “da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr 2Cor 8,9).
L’altro gesto-segno è quello che ripetiamo ogni volta che celebriamo la Messa: prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede. Tutte le religioni insegnano che se Dio venisse in mezzo a noi, toccherebbe a noi lavargli i piedi. Solo il cristianesimo ci racconta di questo Dio che si piega, lui, a lavare i piedi a noi. Tutte le religioni insegnano che se Dio dovesse apparire in forma umana, toccherebbe agli uomini togliersi il pane di bocca e offrirlo a lui. Solo il cristianesimo ci presenta un Dio che si fa pane, lui, per farsi mangiare da noi. Dunque, due gesti, un solo messaggio: proprio perché si sa e si sente amato dal Padre, Gesù si consegna alla morte e alla morte di croce.
E’ un messaggio, questo, troppo importante e decisivo perché noi ci limitiamo qui ad enunciarlo. Tentiamo di approfondirlo, registrando due serie di passi che si leggono soprattutto nel quarto vangelo. Una prima serie insiste sulla obbedienza di Gesù alla volontà del Padre, come: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 4,34), una affermazione che ne richiama un’altra: “Io faccio sempre quello che a lui piace” (Gv 8,29), e ancora: “Il Figlio non può fare nulla da se stesso che non veda fare dal Padre”(Gv 5,19). L’altra serie accentua la piena libertà e responsabilità di Gesù, ad esempio: “Io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla” (Gv 10,17s). Questa dialettica tra dipendenza e autonomia, tra obbedienza e libertà punteggia tutto il vangelo giovanneo: da una parte Gesù riconosce di non parlare da sé (Gv 7,17ss; 12,49), di non essere venuto “da sé”, di non agire da sé, però nello stesso tempo dichiara: “Io sono la risurrezione e la vita”; “Io sono il pane disceso dal cielo”; “Io sono la via, la verità e la vita”. La saldatura tra questi due versanti apparentemente contrapposti va cercata nella loro corretta articolazione teologica. Giovanni non vuol dire che Gesù a volte è radicalmente dipendente e a volte sovranamente libero, ma che la sua radicale obbedienza è il segreto della sua sovrana libertà. Gesù non è libero nonostante sia obbediente, ma proprio in quanto è liberamente e pienamente obbediente alla volontà del Padre.
Ecco il duplice segreto di Gesù: se il segreto della sua libertà è l’obbedienza, il segreto della sua obbedienza è l’amore. Si tratta anzitutto di un amore ricevuto e accolto; è l’amore del Padre ‘suo’. Sapendosi e sentendosi amato, Gesù può affermare con chiarezza abbagliante: “Il Padre mi ama” (Gv 10,17). Ma il suo è anche un amore di risposta grata e gratuita: “Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco”, dice Gesù ai suoi discepoli verso il termine della cena, e subito dà l’ordine secco ai suoi, di uscire dal cenacolo: “Alzatevi, andiamo via di qui” (Gv 14,31).
Così Gesù riesce a superare la paura paralizzante della morte e a liberare quanti come noi che, “per paura della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Ebr 2,15).
Accostiamoci perciò a lui, pieni di fiducia e preghiamolo così: “Signore Gesù, Tu sei nostro unico Maestro e Signore. Tu ci insegni un nuovo modo di amministrare la nostra esistenza, il modo ‘eucaristico’ della gratitudine e della fiducia. Grati al Padre da cui ci sentiamo immensamente e intensamente amati, e fiduciosi nella sua tenerissima benevolenza, ci abbandoniamo con te, alle sue braccia premurose e accoglienti per lasciarci prendere, spezzare e dare ai fratelli. Aiutaci a credere fino in fondo nel suo amore forte e gratuito, fedele e irreversibile, e non avremo paura di donare la vita per amore, di rinunciare a salvare noi stessi per salvare con te i nostri fratelli. Maria, serva “umile e alta più che creatura”, donna forte e pura, stacci vicino nell’ora della croce, aiutaci a dire di sì al Dio dell’amore, e a non dubitare mai della fedeltà alle sue promesse”.
+ Francesco Lambiasi