Vita consacrata, vita fraterna
Omelia tenuta dal Vescovo nella Festa della Presentazione del Signore
Rimini, Cattedrale, 2 febbraio 2011
Quanto deve essere stata struggente la commozione del vecchio Simeone nello stringere tra le braccia il piccolo bambino di Maria: un’estasi incontenibile! Nel vedere, sentire, toccare quel palpito di carne, uno come tanti altri, il santo vegliardo abbracciava la carne di Dio. In quel frammento di vita non solo si conteneva il tutto di Dio Padre, ma si racchiudeva pure, in boccio, la sterminata cifra dei suoi figli. Infatti agli occhi rapiti di Simeone il piccolo di Maria appariva già in qualche modo come il “Primogenito di una moltitudine di fratelli” (cfr Rm 8,29; Col 1,15). Mentre la Madre presentava a Dio il frutto del suo grembo, Dio Padre “introduceva il suo figlio primogenito nel mondo”, “resosi in tutto simile ai fratelli”, quel Primogenito che non si sarebbe “mai vergognato di chiamarci fratelli” (cfr Eb 1,8; 2,18.11).
1. Confessio Trinitatis
Ma chi sono questi fratelli più numerosi delle stelle di tutte le galassie e dei granellini di sabbia di tutti gli oceani? Siamo noi, noi tutti, resi figli dello stesso Padre nel santo battesimo. Siete voi, sorelle e fratelli consacrati, e lo siete a doppio titolo: oltre che per il battesimo che vi ha conformati a Cristo, quale figlio primogenito del Padre, lo siete anche per la vostra scelta di configurarvi alla “forma di vita” di Gesù, al suo modo di esistere e di agire sulla terra, quale fratello casto, povero e obbediente (LG 44). Abbracciando la verginità, avete fatto vostro il suo amore verginale e lo testimoniate al mondo quale Figlio beneamato, talmente ripieno dell’amore del Padre da non aver bisogno né della tenerezza di una sposa né della gioia di figli propri, per poter così chiamare sorelle tutte le donne e fratelli tutti i figli di Adamo, che “hanno in comune il sangue e la carne” (Eb 2,14). Imitando la sua povertà, voi consacrati lo confessate come il Figlio ricco solo del Padre, dal quale tutto riceve e al quale tutto ridona. Aderendo con l’offerta della vostra libertà al sacrificio della sua obbedienza, voi lo confessate come il Figlio-Servo docile e fedele che ci ha liberato perché restassimo liberi.
Così, a titolo speciale, la vita consacrata diventa lo specchio che riflette sulla terra la sublime bellezza della Trinità celeste, la divina famiglia dove le tre Persone si amano con amore totalmente gratuito, oblativo, verginale. Si espropriano interamente di sé per donarsi, senza ritorni nostalgici o morbosi ripiegamenti, l’una alle altre. Si aprono reciprocamente e irreversibilmente con libera, amorevole dedizione e piena corresponsabilità. Voi dunque siete lo spazio umano abitato dalla Trinità; siete la ‘prolunga’ che estende nella storia i doni della comunione trinitaria. La sorgente della vita consacrata non zampilla dal basso, a spinta, ma scaturisce, dall’alto, a cascata. E proprio perché ‘confessione della Trinità’ (confessio Trinitatis), la vita consacrata è anche ‘segno di fraternità’ (signum fraternitatis).
2. Signum fraternitatis
La dimensione della fraternità appartiene al patrimonio genetico della vita cristiana. Come risulta dagli Atti degli Apostoli: scende lo Spirito e nasce la Chiesa, una fraternità in cammino. La rivoluzione cristiana più decisiva è stata quella silenziosa della fraternità: schiavi e liberi, poveri e ricchi, dotti e incolti, tutti riuniti attorno alla stessa mensa, per condividere la vita nuova di figli di Dio e fratelli in Cristo, nella potenza dello Spirito. Questo fatto ha rappresentato il motore e il propellente dell’espansione missionaria del movimento cristiano.
Sintomatica la ‘strategia’ apostolica, perseguita da s. Bonifacio, nell’ottavo secolo. Questo monaco inglese viene consacrato vescovo dal papa e riceve come ‘diocesi’ l’intera, impenetrabile Germania. Ardente ‘giramondo di Dio’ costituisce una fraternità peregrinante di presbiteri, di monaci, di vergini. Questo tipo di apostolato comunitario porta il soffio della Pentecoste. Risulta particolarmente sorprendente il fenomeno dell’associazione di virgines peregrinae pellegrine alla fondazione di nuove comunità cristiane. Scese anch’esse dall’Inghilterra, insieme con la testimonianza della loro verginità facevano opera di vero aiuto nella diffusione del vangelo, e cooperavano nella formazione dei chierici e dei futuri missionari, a tal punto che un biografo attesta: “I monasteri di monaci e di vergini hanno più forza della stessa grazia del ministero ecclesiastico, della stessa predicazione, per sospingere interi popoli verso la fede cattolica”.
E’ vero anche oggi: il “guarda come si vogliono bene” resta la più sicura apologetica della novità singolare del fatto cristiano. Resta anche l’energia più efficace per la nuova evangelizzazione. Ma resta anche il seme più fecondo per nuove vocazioni in una nuova Europa.
Il segno della fraternità è oggi quanto mai attuale. Viviamo in tempi di narcisismo triste e di feroce individualismo. Senza indulgere ai lamenti patetici, senza cedere alle note dolenti sulla nequizia dei tempi, non possiamo non riconoscere che abitiamo in un mondo non più “uni-verso”, ma piuttosto “pluri-verso”, ossia in un mondo diviso e frammentato, paragonabile a uno sterminato orfanotrofio dove si muovono e si agitano miliardi di solitari. In più la desertificazione di senso e il lungo inverno valoriale hanno prosciugato l’aria e rarefatto il respiro.
La fraternità non è un valore aggiunto ai consigli evangelici e, prima di essere il frutto saporoso dell’albero dei tre voti, ne rappresenta la radice centrale, che se venisse amputata, farebbe immediatamente seccare l’albero. Né i religiosi di vita apostolica, presi dall’ansia febbrile della missione, né gli eremiti immersi nella profondità della più aspra solitudine, né le vergini consacrate, che vivono nel formicolio logorante della città, possono sottrarsi all’abbraccio della comunione trinitaria ed ecclesiale.
3. Servitium caritatis
La profezia più attesa oggi dalle persone consacrate è creare oasi fraterne, dove si passi continuamente dall’io al noi. Ma dobbiamo convincerci che nella grammatica cristiana la prima persona del verbo non è il singolare ‘io’, ma il plurale ‘noi’. Dobbiamo capacitarci che pensare con la categoria del noi è esercizio spirituale indispensabile, ma tutt’altro che agevole. Basti recensire le difficoltà più ricorrenti, che circolano nelle nostre comunità: non è proprio possibile vivere assieme senza necessariamente agire insieme? Non è forse vero che ci sono persone splendide che rendono molto di più quando lavorano da sole, anziché quando devono collaborare con altri? Perché allora passare dall’orticello superproduttivo, coltivato ‘in proprio’, al vasto campo comune dalla scarsissima redditività? Così ci ritroviamo comunità fatte da più o meno virtuosi ‘solisti’ anziché da ‘coristi’ concordi e polifonici, più da battitori liberi e da pionieri isolati che non da colleghi che lavorano in sinergia o da orchestrali che eseguono lo stesso spartito o da giocatori collaudati nel fare squadra. Fuor di metafora, la comunità religiosa si ritrova ad essere più una somma di singles che una vera famiglia unita, serena, creativa.
Di rimando, a quelle difficoltà si può controbattere con delle obiezioni non meno pertinenti: siamo fatalmente determinati dalle inclinazioni della natura o dalle tendenze della cultura, oppure il vangelo può apportarvi almeno dei correttivi? Siamo bloccati ai nastri di partenza dell’esistente o siamo liberi di andare in controtendenza e magari di camminare in avanti con le nostre fraternità? E se Cristo ha dato il suo sangue perché tutti siano uno, ci dobbiamo rassegnare a considerare la comunione fraterna e la conseguente collaborazione operativa come una utopia ‘bella e impossibile’? E se siamo chiamati a contrastare l’idolatria dominante, non dobbiamo forse cominciare ad abbattere il padre di tutti i totem, questo selvaggio individualismo, che ci ammalia e ci aliena? Del resto come possiamo metterci in testa che sia possibile procedere oggi in ordine sparso e che il singolo possa rispondere da solo alle sfide del nostro tempo?
Ma non si tratta di una pura questione organizzativa, di tipo aziendale. E’ piuttosto una questione di spiritualità, quella che Giovanni Paolo II ha magistralmente centrato come ‘spiritualità di comunione’, che deve penetrare in tutte le comunità cristiane: parrocchie, presbiteri, monasteri, conventi, seminari, noviziati, associazioni, movimenti.
“Spiritualità della comunione è saper ‘fare spazio’ al fratello, portando ‘i pesi gli uni degli altri’ (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie” (NMI 43).
Sant’Agostino, da parte sua, declinava così la spiritualità di comunione:
“Pregare insieme, ma anche conversare e ridere insieme. Scambiarsi favori con amabilità; leggere in comune libri interessanti. Scherzare insieme e anche stare seri. Dissentire di quando in quando, senza animosità, come se fosse con se stessi e, per mezzo di questo dissentire specialissimo, consolidare la mutua armonia. Insegnare o imparare reciprocamente qualsiasi cosa. Sentire la mancanza degli assenti e accogliere i nuovi arrivati con gioia. Con questi segni che si manifestano nel volto, nella lingua, negli occhi e in mille gesti pieni di affetto, che provengono dal cuore di coloro che si amano e si ripagano amore con amore, come se fossero scintille, si infiammano i cuori di molti e si fa una cosa sola” (Conf IV, 89.
Fratelli e Sorelle di vita consacrata, che il Signore ci conceda di poter godere a lungo, nella nostra Chiesa riminese, di comunità religiose così! di fraternità in cui ogni giorno si ricominci a fare le operazioni elementari della ‘aritmetica evangelica’: addizionare relazioni, sottrarre ostacoli, moltiplicare talenti, condividere risorse.
Ce lo conceda santa Maria, la Vergine Madre che presenta Gesù al tempio, lei, cooperatrice e ministra della nuova alleanza, che offre a Dio Padre l’agnello senza macchia: luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele.
+ Francesco Lambiasi