Omelia tenuta per la Conferenza Nazionale Animatori R.n.S.
Rimini, Palacongressi, 29 ottobre 2010
1. La Parola di Dio è sempre un grande fuoco, e come il fuoco è formato da tante fiamme, anche le parole più brevi sono come delle fiammelle che accendono un pensiero e risvegliano sentimenti. Abbiamo ascoltato dall’intestazione della lettera ai Filippesi, l’auto-definizione di Paolo e Timoteo: “servi di Cristo Gesù”. Questo titolo scolpisce la nostra identità: siamo servi del “Servo”. Contempliamo anzitutto Cristo come colui che ha assunto la condizione di servo, il Servo del Signore, che per amore del Padre, si è fatto servo dei fratelli. Gesù stesso ha presentato la sua carta d’identità, evidenziando il tratto del servizio come particolare segno di riconoscimento, quando ha detto: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”, e ancora: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”. Per Gesù il servizio non è tanto qualcosa da fare o un compito da svolgere; non è neanche soltanto un semplice modo di concepire l’autorità. E’ ancor prima una dimensione che attraversa tutta l’esistenza; non ne ricopre solo qualche minuscolo segmento, ma l’abbraccia nella sua altezza, lunghezza, profondità. Il Servo dei servi e Maestro del servizio ci vuole dire che solo se si parte dall’essere, il fare cambia segno. Se pensi alla vita come al tuo tesoro geloso, da sfruttare a tuo uso e consumo, anche l’attività da compiere, l’incarico da esercitare, il compito da svolgere li vedrai come rampe da scalare per affermarti sopra gli altri, non invece dei gradini da discendere per piegarti a lavare i piedi ai fratelli.
E’ la vostra esperienza, carissimi fratelli e sorelle: alcuni nei ministeri istituiti, altri in quelli di fatto, tutti a servizio del vangelo, della santa Eucaristia, della comunità. Anche voi siete stati guardati con occhio di predilezione dal Signore, che vi ha scelti, purificati, chiamati ad indossare il camice del servizio, da rendere a Cristo e alla sua santa Chiesa. Ora, prima di richiamare i compiti che vi sono affidati e gli impegni che vi vengono richiesti, permettetemi di passare brevemente in rassegna alcune tentazioni a cui siete – siamo – esposti tutti noi, destinatari dei vari ministeri nella comunità cristiana.
Una prima tentazione dei ministri-servi è l’attivismo. E’ la tentazione di Marta, sorella di Maria: c’è il rischio che il darsi da fare per l’ospite non lasci più tempo per l’ospite. Ma il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare l’ascolto della Parola. Diceva un vecchio rabbino parlando di un collega: è talmente indaffarato a parlare di Dio da dimenticare che Dio esiste! Non si può confondere l’urgente con l’importante. Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Fare molto può essere segno d’amore, ma può anche far morire l’amore. Questo vale anche per il prossimo: gli uomini hanno certamente bisogno di servizi e di servizio, ma anche e forse più hanno fame di ascolto, di accoglienza, di amicizia; hanno fame di comunione.
Un’altra tentazione è il vittimismo: ci si impegna allo spasimo, ma sotto sotto ci si aspetta considerazione, visibilità e una qualche ricompensa. E’ la reazione del fratello maggiore, nella parabola del padre misericordioso, riportata nel vangelo di Luca: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici”. Quando il cuore va in automatico e funziona come un “calcolatore” infallibile, costantemente alle prese con la partita doppia del dare e dell’avere; quando nell’intimo si ripete implacabile il disco rotto della lagna continua e del mugugno acido e ricorrente, allora la fine è vicina: è il segno che le lancette del tempo stanno girando sempre più vertiginosamente fino a spostarsi sull’ora in cui si scoppia e si molla tutto.
Parente stretto del vittimismo e dell’attivismo è, poi, il narcisismo. E’ la tentazione di chi presta il servizio specchiandosi a ripetizione in quel che fa. Narciso vive col continuo sospetto che la vita gli chieda troppo senza ripagarlo adeguatamente; sente la diocesi o la parrocchia più come matrigna che come madre; ritiene che il vescovo o il parroco non lo valutino abbastanza; avverte l’impegno affidatogli come un abito o un ambito troppo stretto per le sue possibilità. E alla fine, se qualcosa non funziona, è sempre colpa del sistema, della struttura o degli altri.
La terapia più mirata ed efficace per queste patologie acute è quella di esercitare il ministero come un dono da spendere secondo le finalità oggettive del ministero stesso che viene affidato.
2. Viviamo un lungo inverno di sentimenti inariditi e di narcisismo asfissiante, i cui miti seducenti sono l’autorealizzazione ad ogni costo, l’autogratificazione a qualsiasi prezzo, l’autogiustificazione con qualunque scusa. Sempre più diffuso appare il contagio da “ego-patia”: affermarsi per non morire; gli altri si arrangino pure. Io posso anche sbagliare, ma la colpa è sempre degli altri. Insomma Io, Io, Io e dopo, ma solo dopo, gli altri…
La spiritualità del servizio è il vaccino più efficace contro il morbo di Ego. E’ una spiritualità di buona lega, nella Chiesa e nella società. Eppure oggi sembrano circolare più dichiarazioni di servizio che veri servi. C’è chi parla della dignità del servizio quando è in posti di comando e chi rivendica la dignità della persona umana quando viene richiesto di svolgere un compito, a suo dire “umanamente poco dignitoso”. Il servo, che appartiene alla vera compagnia dei servi di Gesù, è colui che fa quello che ai più non piace fare, che nel suo intimo non si porta un registro di cassa con la partita doppia del dare e dell’avere. Il servo secondo il vangelo è uno che scrive sulla sabbia quello che dona e incide sulla pietra quello che riceve; è colui che appartiene alla razza di quanti dopo aver fatto il loro turno, dicono: “Siamo soltanto dei poveri servi; abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).
Questa è la strada della perfetta letizia. Se, dopo esserti consumato in un lavoro oscuro e logorante, non ti affliggi perché nessuno ti ringrazia, ma resti sereno e non perdi la pace, allora lì è perfetta letizia. Se non fai del successo – neanche di quello apostolico – il tuo dio, ma consideri Dio e il suo amore immeritato come la tua fortuna più grande; se ti ritieni beato perché sei contento del Signore e non stai sempre a fare le lagne per come lui ti tratta, allora lì è perfetta letizia. Se non entrerai nel servizio del vangelo con lo spirito del salariato, ma in piena disponibilità, senza accampare pretese e senza rivendicare diritti; se penserai che c’è più gioia nel sentirsi amati che nel venire pagati; se riterrai il tuo premio più prezioso l’interiore certezza di ascoltare un giorno le parole del Signore, al quale unicamente hai servito: Bravo, servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore, allora si può esserne sicuri: lì, solo lì, proprio lì, è perfetta letizia.
+ Francesco Lambiasi