Nel tradizionale incontro con le Autorità in occasione della solennità del celeste Patrono della Diocesi il Vescovo di Rimini mons. Francesco Lambiasi ha tenuto il seguente discorso.
Mi è particolarmente caro questo appuntamento, nella solennità di San Gaudenzo, con le Autorità civili e militari e con quanti hanno speciali compiti di responsabilità nella vita della nostra Città. Tutti saluto di cuore e ringrazio vivamente per avere accolto questo invito. Il nostro Santo Patrono ispiri i vostri pensieri e sostenga il vostro impegno.
1. Se dovessi dare un titolo a questo mio intervento, non esiterei a formularlo come una serie di “appunti per un’agenda di speranza per il futuro di Rimini”. Mi rendo ben conto che il termine “appunti” è insieme modesto e impegnativo. “Appunti” dice un canovaccio ancora magmatico di pensieri, di prospettive, di impegni, che hanno bisogno di essere ulteriormente rifusi e riplasmati per approdare ad una sintesi chiara matura e compiuta. D’altra parte non possiamo sottrarci alla fatica di sognare e disegnare il futuro di una Città umana, vivibile e accogliente.
Questi appunti sono indirizzati non solo alle Autorità qui presenti o rappresentate, ma anche alle tante persone – donne e uomini di buona volontà residenti e operanti nel nostro habitat – verso le quali come cattolici nutriamo sentimenti di viva amicizia e con le quali sentiamo di dovere e poter condividere la cura del bene comune. La qualità civile di una società dipende non da ultimo dalla qualità del confronto che si sviluppa tra tutte le persone, gruppi sociali e istituzioni interessate e coinvolte a costruire il futuro di Rimini. Partecipare a questo confronto al meglio delle possibilità è per noi cattolici un dovere ed allo stesso tempo un segno dell’amore grande che portiamo per la nostra Città. Questa è anche una via per la quale cerchiamo di correggere mancanze ed errori, dai quali pure non siamo stati esenti.
2. Come avvio alla riflessione che vengo a proporvi, mi permetto di partire da una impressione assai favorevole, che provai fin dai miei primi contatti con la Città negli anni precedenti la mia venuta tra voi come Vescovo, e poi ampiamente confermata in questi anni. L’impressione che Rimini è una città dal grande passato, e anche se il presente appare in chiaroscuro – con tratti positivi ma anche problematici – gode però di una notevole capacità di lavoro e di impresa che la può far tornare a crescere. Infatti, senza indulgere all’enfasi, possiamo riconoscere che Rimini – città e provincia – rappresenta un laboratorio di molteplici e promettenti risorse che, opportunamente liberate, sostenute e valorizzate, possono costituire una riserva di energie spendibili per sciogliere nodi, raccogliere sfide, immaginare soluzioni nuove, promuovere la qualità umana e civile della nostra società. Rimini è ancora capace di aprirsi al suo futuro con fiducia e coraggio, riprendendo a camminare verso e secondo un maggior bene comune.
Ai problemi, che impegnano il Paese – e dai quali la Città non è immune – si aggiungono per il nostro territorio e per la nostra gente alcuni ulteriori motivi di difficoltà e di preoccupazione. Con una certa frequenza i cittadini ricevono notizie che sconcertano e destano allarme. L’auspicio sincero è che vengano superate le tante difficoltà che da tempo ci affliggono e quelle che sono insorte in questi mesi in vari settori della nostra vita sociale, amministrativa ed economica: non per rassegnazione, ma per giungere a soluzioni effettive e adeguate, che portino serenità a tutti i cittadini.
L’atteggiamento del Vescovo e dell’intera Diocesi non può che essere di fiducia e di incoraggiamento in questa direzione. La nostra speranza è riposta nel Signore e nella buona volontà degli uomini. Siamo sostenuti dalla certezza che il nostro Dio ha a cuore questo suo popolo: gli ha donato un territorio bello e ricco di storia e di risorse naturali; lo ha dotato di talenti di intrapresa, di creatività, di capacità di adattarsi alle situazioni meno favorevoli; lo ha sostenuto in momenti ben più difficili. Abbiamo fiducia nella nostra gente, nella competenza, nella retta intenzione e nella buona volontà di tanti che sanno farsi carico del bene di tutti.
3. Dopo questa veloce panoramica – che, come si è visto, più che monitorare al dettaglio la situazione, cercava di rilevare atteggiamenti presenti o di suggerirne di auspicabili, e tentava di cominciare ad accendere delle frecce direzionali per imboccare le vie necessarie e più opportune – vorrei richiamare una costellazione di ideali, principi e criteri che ci possano servire di orientamento per la costruzione dell’agenda dei prossimi anni.
La nostra stella polare è senz’altro il principio e fondamento del bene comune. Ogni altro criterio risulterebbe inefficace e dannoso. Il bene comune – bene integrale di tutta la persona e di tutte le persone – non è compatibile con una teoria della società “al singolare”. La famiglia, le associazioni a scopi economici, politici, religiosi o ricreativi, e così via, hanno un’originalità che non può essere eliminata senza danno per il bene comune. Le loro logiche devono essere distinte, ma non possono essere isolate, potendo dar luogo a reciproche limitazioni positive, e a positive “ibridazioni” in una società che non conosca solo scambio tra equivalenti (cfr Caritas in veritate 38). Dunque il bene comune è un insieme di condizioni, la produzione delle quali «spetta tanto ai cittadini, quanto ai gruppi sociali, ai poteri civili, alla Chiesa e agli altri gruppi religiosi: a ciascuno nel modo ad esso proprio, tenuto conto del loro specifico dovere verso il bene comune» (Dignitatis humanae n. 6).
Le altre due stelle che appartengono alla costellazione del bene comune sono il principio di solidarietà e quello di sussidiarietà. Una matura coscienza del valore rappresentato dalla pluralità dei legami sociali comporta una esaltazione del principio della solidarietà. Tanto maggiore è la valorizzazione delle differenze e delle specificità, tanto più grande è il contributo specifico del condividere, del farsi amici, del sostenersi reciprocamente. La condivisione, e più in generale l’amore, non è un cumularsi di elementi anonimi, ma è un sovvenire arricchito da persona che sovviene persona, e da differenza che dona se stessa al differente. La solidarietà cristiana non nasce né tramonta nell’omogeneità, ma trae forza e allo stesso tempo alimenta la varietà e la libertà attraverso l’amore. L’altro principio fondamentale è il principio di sussidiarietà, nella sua portata – per così dire – “verticale” e “orizzontale”. Oggi comprendiamo meglio che se nessuna delle manifestazioni di quel pluralismo sociale di cui s’è detto può vantare il monopolio di competenza sul bene comune – non la politica, non altre -, ciascuna ha un contributo specifico da recare, e che, insieme a tutte le altre, ciascuna partecipa all’incessante opera di composizione nella quale un certo grado di competizione e persino di conflitto svolge un ruolo positivo e permanente.
Vorrei tentare una piccola applicazione di questi principi fondamentali alla famiglia. La famiglia è espressione unica dell’insopprimibile socialità della persona umana, socialità la cui verità è ultimamente nell’amore come libero dono di sé (cfr Centesimus Annus 39). La famiglia, che pure può generare la vita, non è autorizzata a possederla, ma è chiamata ad accoglierla per servirne la crescita nella libertà (cfr Gravissimum educationis 1) e ad accompagnarla anche attraverso le prove più dure, per educare a una libertà vera, che si realizza “nella carità e nella verità”. Peraltro in una compiuta prospettiva di sussidiarietà, la famiglia non tollera alcuna subalternità allo Stato, alle imprese o a qualsiasi altro potere o circuito sociale. Nei limiti della propria specificità, essa travalica ogni tentativo di reclusione nel privato e gode di una piena dignità sociale e pubblica. La famiglia è presidio e fattore di bene comune, paradigma di relazione delle forme sociali alla vita, testimone dell’amore come prima energia sociale, ostacolo a ogni riduzione dello spazio pubblico a mero spazio statale.
4. Appena alcuni mesi or sono il Consiglio Comunale ha approvato all’unanimità, come atto di indirizzo, il “Piano Strategico”. Ricordo con speciale emozione quella seduta del 13 maggio scorso, alla quale fui cortesemente invitato e nella quale potei esprimere il mio incoraggiamento per il lavoro svolto, per i suoi risultati e per il metodo seguito. Proprio il metodo con cui si è giunti alla stesura del documento conclusivo è già un fatto molto apprezzabile e un motivo di grande incoraggiamento: la chiamata a corresponsabilità di tanti e la capacità di sinergia e di convergenza di soggetti ed esperienze diverse, in nome del bene comune. Anche il mondo ecclesiale e cattolico ha accolto con entusiasmo l’invito a dare il proprio significativo e stimato contributo.
Ora il “piano strategico” non può e non deve andare in archivio, ma merita di essere sostenuto perché sviluppi al meglio tutte le sue potenzialità. Per questo è di fondamentale importanza tenerne in vita la sua anima profonda che si identifica con quella “svolta (antropologica)”, che permetta alla Città di transitare dal fare all’essere, dalla Rimini ossessionata dalla ricostruzione materiale della sua veste esteriore – in ambito turistico, edilizio, spettacolare ecc. – ad una Rimini più attenta alla costruzione della sua identità e memoria, più attenta alla cultura, alla bellezza, all’educazione, all’accoglienza. Su questi ambiti vitali occorrerebbe investire molte più risorse, non solo in senso economico, ma progettuale, e investire creativamente, politicamente, spiritualmente…
Vorrei provare ora ad abbozzare alcuni capitoli che dovrebbero andare a costruire l’agenda per la Rimini del futuro e che sintetizzo in tre verbi: intraprendere, educare accogliere.
5. Intraprendere
A Rimini c’è ancora una riserva di capacità di lavoro e di impresa che non teme il mercato. È certo questa una delle condizioni che ci consente di guardare realisticamente alla ripresa della crescita secondo e verso il bene comune, e in particolare di quella sua componente che è la crescita economica.
Vorrei qui rivolgermi innanzitutto agli imprenditori. Non dimentichiamo che «mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”» (Laborem exercens 9). Né dimentichiamo che i valori fondamentali e universali di libertà e di responsabilità un imprenditore li manifesta, ma non dovrebbe esaurirli: «l’imprenditorialità, prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come actus personae, per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare “in proprio”» (Caritas in veritate 41). Non a caso Paolo VI insegnava che “ogni lavoratore è un creatore”.
D’altro canto si è fatto indilazionabile il ripristino di normali condizioni di credito alle imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, così come urge evitare la morte per crisi di liquidità di quelle sane. Teniamo presente che il nostro territorio possiede un discreto numero di banche a carattere locale, che da sempre hanno sostenuto la nostra economia. Al riguardo vorrei esprimere fondata fiducia che esse continueranno a svolgere un ruolo tanto positivo e prezioso. Oltre all’apporto per il superamento della congiuntura negativa, ci si attende che le banche svolgano un compito anche nei processi di sviluppo di più lungo periodo. Ciò sarà possibile solo nella misura in cui gli attori della finanza e del credito non si sottrarranno al compito di partecipare al rischio che la Città e la Provincia dovranno affrontare per crescere, non emergendo del resto da questa fase motivi sufficienti a rinnegare il processo di apertura e di maggiore concorrenza anche nel settore bancario. Anche oggi le banche si trovano oggettivamente di fronte alla possibilità di scegliere tra indirizzare la liquidità di cui dispongono verso attività speculative, oppure programmare una ripresa prudente ma decisa e significativa del credito.
6. Educare
Il capitolo appena abbozzato è strettamente intrecciato con questo, successivo, legato all’educare. Infatti non solo la sfida educativa si presenta come grave crisi di bene comune, ma non si possono chiudere gli occhi ad un gravissimo fenomeno: in questo momento sono i giovani a pagare, più di tutti, i costi della crisi. L’azione per il bene comune, oltre la sua efficacia immediata, ha un altissimo valore educativo. E’ un’azione che pone al centro la persona e i suoi diritti irrinunciabili; che si specifica nell’ambito economico – occorre educare i giovani anche all’intraprendere! -, come in quello della cultura e dell’educazione, della bellezza e della vivibilità della città, dell’accoglienza, della partecipazione di tutti e della fraternità. In vista di questo obiettivo, ciascuno è chiamato a fare la sua parte, a dare il suo imprescindibile contributo.
Per quanto riguarda più da vicino la nostra situazione, vorrei ricordare la grande risorsa rappresentata dall’Università Bolognese con sede in Rimini. Abbiamo bisogno di stringere il rapporto tra la Città e l’Università, in senso bidirezionale: da parte della Città, perché senza l’ossigeno della cultura una città rischia solo di sopravvivere; d’altra parte anche l’Università può trovare nella Città un laboratorio di ricerca e di costruzione del futuro. Un nuovo patto educativo tra Università e Città dunque si impone, perché entrambe non potranno crescere se non insieme.
Vorrei accennare ad un segno concreto di attenzione da parte delle istituzioni nei confronti degli studenti universitari, sempre più presenti nella nostra città, ed è l’impegno a far crescere ulteriormente la disponibilità di alloggi a costo accessibile. Tra alcuni giorni avrò l’onore e la gioia di partecipare alla inaugurazione del nuovo studentato per universitari, realizzato in sinergia tra l’Università e le Istituzioni locali: si tratta a mio avviso di un segno rilevante che merita apprezzamento e solidale incoraggiamento.
7. Accogliere
In questi ultimi anni è cresciuto enormemente il fenomeno delle immigrazioni nella nostra Città e nel circondario. Ben al di là della polemica spicciola e strumentale, vivissima è la coscienza diffusa dei rischi e delle opportunità di tale fenomeno: è chiaro che questo processo arricchisce sotto svariati profili la nostra comunità civile, dotandola di risorse che non produce e di cui ha bisogno per crescere. La tensione è quella di combinare strategie di inclusione che mettano in circolo le nuove presenze, che a esse offrano le opportunità ricercate e che propongano riferimenti istituzionali chiari, in grado di guidare un percorso di responsabilizzazione. L’inclusione non è un processo privo di regole e di sanzioni, rapido o meramente cumulativo: è l’incontro tra atteggiamenti responsabili e avveduti, essi stessi aspetto di carità matura e intelligente.
Il riconoscimento della cittadinanza da parte dello Stato italiano è solo una condizione, certo necessaria ma non sufficiente, per una piena interazione/integrazione delle seconde generazioni nella società italiana. Riconoscere e far rispettare i diritti dei figli dell’immigrazione è infatti una responsabilità collettiva che investe tutte le istituzioni e tutti gli individui. Un esempio: è senz’altro essenziale per un ragazzo di seconda generazione vedersi riconosciuto il diritto di frequentare l’università senza dover richiedere e rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno per motivi di studio. Ma è anche importante che il suo diritto a raggiungere i livelli più elevati d’istruzione (se “capace e meritevole”, come recita la Costituzione) non sia pregiudicato da insegnanti che lo reputano, solo per la sua origine, inadatto agli studi superiori, e finiscono così per orientarlo – anche in buona fede – verso strade professionalizzanti. In definitiva, ogni momento di interazione con i figli degli immigrati – pensiamo al grande lavoro svolto ogni giorno, senza clamore né pubblicità, nei tanti luoghi di aggregazione e d’incontro in cui si realizza l’azione sociale della Chiesa – dischiude un’occasione di riconoscimento della loro piena cittadinanza. Tale lavoro può e deve cominciare subito, mostrando una attiva solidarietà nei confronti di quelle cittadine straniere, anche “clandestine”, che, trovandosi in stato di gravidanza, sono esposte al rischio di scegliere come soluzione l’aborto volontario.
In sintesi occorre far crescere la sensibilità all’accoglienza anche nel confronto delle “badanti” – donne che prestano un servizio preziosissimo presso gli anziani e gli ammalati delle nostre famiglie – anche incentivando agevolazioni economiche e fiscali per la loro regolarizzazione.
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Nella mia recente lettera pastorale, che sono lieto di porgere personalmente a tutti gli intervenuti, ho voluto rileggere le beatitudini del vangelo e trarne qualche spunto anche per la nostra vita come cittadini. Meditando, infatti, sul tema “cittadinanza”, mi hanno particolarmente colpito le parole di Gesù che proclamano “beati i miti”, “beati gli operatori di pace”.
I “miti” sono coloro che nel loro agire rifiutano la logica dell’aggressività, della violenza, della contrapposizione preconcetta; coloro che vogliono contribuire al bene, e non “vincere” a tutti i costi. “Operatori di pace” sono coloro che non considerano la Città come un campo di lotta per il potere, ma un ambito in cui cercare il “bene di tutti e di ciascuno”, quel bene sommo che è la pace, la fraternità. Emerge un atteggiamento di fondo ed uno stile che rifuggono dalla rissa e cercano piuttosto di dare contributi costruttivi, pur nella necessaria dialettica delle opinioni.
Mi sembrano indicazioni decisive per delineare le caratteristiche dell’impegno civile, sociale e politico nella Città; un invito a reagire allo scoraggiamento, a rifiutare una litigiosità sterile e steccati preconcetti, a smentire lo slogan amaro che “a Rimini non si combina niente”, per cui “la nostra Città si va marginalizzando”. “Beati i miti”, “beati gli operatori di pace”: più che un auspicio, è un impegno per tutti. E’ lo stile di vita giusto per chi intende impegnarsi a reggere le sorti della Città. Ho scritto nella Lettera pastorale: “Chi ha responsabilità politiche e amministrative non può non avere a cuore il disinteresse personale, il rifiuto della menzogna e della calunnia come strumento di lotta contro gli avversari, la fortezza per non cedere al ricatto del potente, la carità per assumere come proprie le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi, la preparazione tecnico-professionale richiesta dall’ufficio a cui si dedica”.
Nel volgere al termine, ringrazio per la cortese attenzione; rinnovo la mia considerazione personale, insieme con la mia attenzione di pastore e la promessa della preghiera per le Loro Persone e per il compito affidato a ciascuno. Auguro di cuore ogni soddisfazione nel compimento del Loro servizio al bene comune.
Affido all’intercessione del nostro Patrono San Gaudenzo questo Loro impegno. San Gaudenzo vegli sulla nostra Rimini, la benedica e la protegga.
Rimini, 14 ottobre 2010 – Solennità di s. Gaudenzo
+ Francesco Lambiasi