Omelia tenuta dal Vescovo in Cattedrale, nel corso della liturgia esequiale in suffragio di don Luigi Tiberti – Rimini, 23 gennaio 2010
Grande forza interiore. Entusiasmo sincero e appassionato. Franchezza aliena da piaggeria. Partecipazione fedele e propositiva nella e con la Chiesa diocesana. Capacità di accoglienza calda e generosa verso tutti. Proposta di un cristianesimo aperto alle vicende del mondo e al suo futuro. Queste sono alcune pennellate del ritratto di don Luigi Tiberti, che ho ricavato da alcune spigolature nel fascio di testimonianze raccolte su di lui, in occasione del suo “santo pellegrinaggio”. E ancora: di temperamento schivo e riservato, alieno dall’esposizione mediatica. Positivo, costruttivo e tenace. Prete-prete, umile e povero, e sempre attento ai poveri. Ministero intenso e infaticabile. Vita sacerdotale caratterizzata da grande spirito di preghiera. Assoluta devozione e obbedienza al vescovo. Pronta e serena collaborazione.
1. Dal faldone straripante del suo ricco e fecondo ministero, ritaglio alcuni fotogrammi: Duomo di Rimini, 27 giugno 1954, ordinazione sacerdotale di don Luigi, insieme a don Primo Mazza e a don Lazzaro Raschi. Unico regalo accettato per la prima Messa, dopo aver chiesto che non ne venissero fatti, una bicicletta. Dopo appena un anno trascorso da cappellano a s. Giovanni Battista, fu mandato in seminario per dedicarsi alla pastorale giovanile della diocesi. Un’obbedienza costata cara al giovane sacerdote, ma ne fece le spese anche il tavolo del suo studio, sfasciato da un pugno micidiale con il quale il giovane “don” scaricava la delusione per dover abbandonare le molte attività parrocchiali iniziate con tanto entusiasmo. Fra queste la gara di catechismo regionale, vinta battendo in finale addirittura s. Gaudenzo.
Ancora: don Luigi, giovane Assistente della GIAC, nello sgabuzzino in Via Leon Battista Alberti a confessare, insieme a Don Oreste, file interminabili di giovani e giovanissimi, che per anni si sono affidati alla sua guida spirituale.
Ancora: don Luigi, segretario per vent’anni di Mons. Biancheri in un minuscolo studiolo, zeppo di libri, nell’anticamera del vescovo, allora in casa del Clero. Un segretario che con tutti gli impegni che aveva, non riusciva ad essere puntuale, tanto che il vescovo Emilio, con la solita amabile, frizzante ironia, diceva che spesso doveva fare lui da segretario al suo segretario.
Ed ecco don Luigi, primi anni ’60, a Bruxelles, per conoscere il fondatore della JOC, il futuro cardinale Mons. Cardijn. Fu, quella, una scoperta, che si trasformò in un impegno mai più abbandonato. Vedi il servizio pluriennale come Assistente delle Acli e primo Direttore del nuovo ufficio di Pastorale Sociale. Ma non fu mai un uomo del palazzo; fu sempre un prete, un fedele servitore dei lavoratori, mai un funzionario, un burocrate freddo e distante: molti lo ricordano davanti alle fabbriche per incontrare i giovani che finivano il turno di lavoro o a celebrare la Messa, in occasione della Pasqua. La sua parrocchia è stata il mondo del lavoro, che ha percorso in lungo e in largo, nella cura dei suoi “fedeli”, contattati e raggiunti uno ad uno. Sapeva porsi affianco ad un operaio con la stessa lealtà e disponibilità con cui si poneva davanti al vescovo.
Ed ora un’istantanea che copre oltre trent’anni: Don Luigi a scuola, professore di religione a cattedra piena, fino alla pensione, all’Istituto Professionale Leon Battista Alberti: impostava l’insegnamento sul dialogo con i giovani, interessandosi a fondo delle loro condizioni di vita, dei loro interessi, dei loro problemi. Erano giovani spesso avviati al lavoro in età precoce, molte volte lontani dalle parrocchie e dalla vita ecclesiale. Don Luigi non si limitò all’ora di lezione: stabili con gli alunni, e con i colleghi insegnanti, un rapporto molto intenso, che con alcune classi è durato fino agli ultimi anni. Il suo dialogo con gli studenti non era mai marginale, ma sapeva andare al fondo dei grandi problemi della vita, che aiutava a ricondurre alla proposta della fede cristiana. Memorabili, fino al termine del suo insegnamento nella scuola, i “ritiri” che svolgeva classe per classe in preparazione alla Pasqua e anche più volte l’anno; in essi la gran parte dei giovani si confessava e consolidava il riferimento a Cristo e alla Chiesa; vi partecipavano anche i ragazzi più turbolenti o contestatori. L’affetto di tanti giovani per don Luigi non nasceva da speciali doti di fascino esteriore o da particolare facilità di parola, ma dall’afflato della sua appassionata e coerente convinzione e testimonianza di fede.
L’ultima foto lo ritrae in casa del clero. La facemmo insieme qualche mese fa. E’ il don Luigi degli ultimi sei anni: forte e sereno, sempre sorridente. E sempre prete, mai a riposo, neanche durante la malattia: una continua litania di colloqui personali, confessione, direzione spirituale, accurata preparazione dell’omelia, celebrazione della Messa nella “sua” chiesetta di s. Agnese. Il vivere la malattia come una “vocazione”, il portare la croce con fedeltà e pace, l’ostinata fiducia in un mondo migliore sono state le ultime pagine del suo diario.
Ma nella vita di un prete come don Luigi ci sono stati degli eventi che meritano di far parte delle pericopi dei nuovi Atti degli apostoli. Eccone una: 30 aprile 2009, a don Luigi viene amputata una gamba. E’ giovedì. Venerdì 1° maggio è la festa dei lavoratori. Don Sergio lo va a trovare il 2 maggio. Lo trova sollevato, “in forma”, come sempre. Parlano dei preti della Casa, da cui era assente da una decina di giorni. Ripete: “Salutameli tutti”, e aggiunge: “In Casa del clero stiamo bene”. Poi parlano del primo maggio dei lavoratori, celebrato a Villa Verucchio. Ad un tratto si ferma, guarda fisso davanti a sé ed esclama: “Io ne ho fatti tanti, certamente più di cinquanta, ma questo è stato il più bello”. Ogni commento rischierebbe di sciupare questa sequenza tratta da quel “quinto evangelo” che continua ad essere scritto a quattro mani, dallo Spirito Santo e dalla Chiesa dei nostri giorni.
2. Ma ora non dobbiamo schivare la domanda più ardita. Chiediamoci: qual era l’anima di un apostolato così febbrile e fecondo? Qual era il fuoco che faceva ardere questo prete povero e puro di cuore? Qual era il baricentro che teneva in piedi una struttura umana così armoniosa e complessa, senza farla sprofondare nelle sabbie mobili della complicazione più sterile? A me sembra che questo fuoco e questo baricentro abbiano un solo nome: la spiritualità dell’abbandono. Le ascendenze le conosciamo: portano il nome di Ignazio di Loyola, Francesco di Sales, Teresa di Gesù Bambino, ma quella più vicina a don Luigi è stata senz’altro la spiritualità dei piccoli fratelli di Gesù, testimoniata e rivisitata da Ch. de Foucauld, il piccolo fratello universale. Spiritualità dell’abbandono è la spiritualità di Nazaret e della costellazione evangelica che brilla sulla santa Casa: nascondimento e silenzio, lavoro e adorazione, mitezza e misericordia, offerta e immolazione. E’ il vangelo del quotidiano. La spiritualità dell’abbandono è la spiritualità della fede, punto.
In fondo l’abbandono è la prima parola nel dizionario dei sinonimi della fede. Abbandonarsi, in negativo, è non trattenersi, non considerarsi un tesoro geloso, e quindi rinunciare ad autopossedersi, ad autogestirsi in proprio; è smettere di illudersi di bastare a se stessi e di adorare il proprio Io al posto di Dio; è farla finita con il miraggio narcisista di autorealizzarsi. In positivo, abbandonarsi è fidarsi e affidarsi, è consegnarsi a Dio liberamente e totalmente, è lasciare a lui di fare di me quello che più gli piace, è consentirgli di fare storia insieme con noi. Credere è abbandonarsi al suo amore di Padre, un amore gratuito e immeritabile, fedele e irreversibile, tenero e tenace. E’ gettarsi senza paura e senza misura tra le braccia dell’Amore, è un continuo lasciarsi generare come figli dal Padre, un interminabile lasciarsi ricevere dal suo amore perennemente incandescente, instancabile, inesauribile. Abbandonarsi: verbo delicato e rischioso insieme, che evoca rinuncia al miraggio dell’autosufficenza, dice incrollabile certezza di essere amati, serena e fiduciosa disponibilità a lasciarsi amare.
Non so molto dell’infanzia di Tonino – come era chiamato Luigi Tiberti in famiglia, da piccolo. Ma come non immaginare che anche a lui il giovane papà abbia fatto quel gesto, così audace e così dolce, che al bambino piace tanto: lasciarsi prendere in braccio, farsi lanciare in aria e, mentre il papà finge di farlo precipitare a terra, lasciarsi cadere tra le sue braccia e ridere a gola spiegata, perché il piccolo sa bene che dal babbo non gli potrà mai venire alcun male.
“Quale grande amore ci ha dato il Padre!”, abbiamo sentito dall’apostolo Giovanni. Siamo figli, non cose a caso, non orfani sperduti in un immenso orfanotrofio di sei miliardi di solitari. Se il Dio fedele è “colui che porta”, che porta in braccio, credere in questo Dio significa lasciarsi portare, sempre e comunque, qualunque cosa accada. Vuol dire ritrovare l’infanzia evangelica degli stupori e delle estasi, il calore degli abbracci, la luce dei sorrisi. Vuol dire diventare “come bambini”, che danno la mano con fiducia per essere guidati e seguono il passo sicuro di chi li accompagna, perché si sanno e si sentono amati.
La spiritualità dell’abbandono è una spiritualità filiale. Il bambino è così poco efficiente e produttivo, eppure è tranquillo davanti al futuro, sicuro non di sé, ma dei suoi genitori; è forte non della propria forza, ma di quella con cui lo sollevano le braccia robuste del babbo, lo accudiscono e lo accarezzano le mani tenere della mamma. La sua debolezza è la sua forza.
In tutta la sua vita Don Luigi è diventato sempre più padre, perché ha cercato di diventare sempre più figlio, per annunciare che Dio è solamente buono, è padre che scorge il figlio da lontano e gli si butta al collo, è pastore in cerca della pecorella perduta, e quando la ritrova se la pone sulle spalle, tutto contento. Dio è fatto così. Questo è il Dio da cui don Luigi si è lasciato amare, che ha amato, e che ci ha fatto amare.
Che anche a noi resti scolpita nel cuore la sua lezione: se Dio è fatto così, non ci resta che farci prendere in braccio.
Caro Don Luigi, lascia che ora anche noi, dopo il tuo dolcissimo Signore, ti diciamo beato: per la tua povertà e umiltà di spirito, per la mitezza che ti ha fatto ereditare la terra del cuore di molti, per la misericordia con cui hai saputo compatire miserie e fragilità, per la purezza del tuo cuore che ti ha tatto vedere Dio in terra, per la fatica dolorosa e benedetta nel costruire la pace dentro e intorno a te, per la costanza che ti ha fatto affrontare ostilità, incomprensioni e persecuzioni. Beato te, don Luigi, perché hai creduto e ti sei abbandonato, come un bimbo in braccio a sua madre.
Ora, dopo aver preso possesso dello scanno che ti è stato riservato per tutta l’eternità, affianco a don Oreste e a don Giancarlo, torna presto da noi, a passare il tuo cielo sulla nostra terra riminese. Datti subito da fare e facci pregare con te:
Padre mio, io mi abbandono a Te, fa’ di me ciò che ti piace. Qualsiasi cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature: non desidero nient’altro, mio Dio! Affido l’anima mia nelle tue mani, te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza di amore il donarmi a Te, l’affidarmi alle tue mani, senza misura, con infinita fiducia: perché Tu sei il Padre mio! Amen.
+Francesco Lambiasi