Omelia per la Messa della notte di Natale – Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2009
Sogno, favola, ricordo di un avvenimento passato e sorpassato, rimpianto nostalgico e struggente? il Natale non è affatto tutto questo. Non è il sogno di un mondo meraviglioso e impossibile, che ci fa evadere per un giorno dal grigiore del quotidiano per lasciare subito il posto all’amaro disappunto di una delusione cocente. Non è una favola tenera, toccante, che torna buona per far addormentare i piccoli, ma che una volta grandi non si riesce a credere più. Il Natale non è il ricordo di un passato remoto e sepolto nella magica notte del bel tempo che fu. Non è il rimpianto di una infanzia perduta, di una pace chimerica, di una innocenza incantevole ma ormai introvabile.
Non sogno né favola, non ricordo né rimpianto, la Buona Notizia risuonata duemila anni fa a Betlemme riecheggia oggi in mezzo al nostro agitato e convulso baccano: “Ecco, vi annuncio una grande gioia: oggi è nato per voi il Salvatore”. Il Natale di Gesù è la news più sorprendente di tutti i tempi, al punto da spezzare in due la linea del tempo, sotto ogni latitudine: anche in Cina, in India o in Africa, oggi è il 25 dicembre 2009 dalla nascita di Cristo. Se s. Paolo fosse stato un giornalista dei nostri giorni, l’avrebbe resa con titoli da scoop, a tutta pagina: “E’ apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini” (2.a lettura).
1. “Grazia” significa dono totalmente gratuito. Il Natale è dono: è dono immeritato e stupefacente, atteso eppure sorprendente, desiderabile ed eccedente ogni possibile desiderio. Gratuità, sorpresa, eccedenza sono tratti essenziali del dono del Natale. Soffermiamoci sul primo: la gratuità.
A Natale – si potrebbe osare di dire – Dio supera se stesso. L’amore infatti conosce due possibilità di volere bene alla persona amata. Una prima possibilità è quella di fare dei doni a quanti si ama: è l’amore che si può chiamare di munificenza o condiscendenza. Ma c’è un amore più grande, “il” più grande possibile: è quello di sacrificarsi e di soffrire per la persona amata. E’ l’amore che potremmo chiamare di con-sofferenza o “compassione”, nel senso letterale di questo termine: “soffrire-con”. Se nella creazione Dio ci ha amato subissandoci di doni – la vita, l’intelligenza, il creato, i fiori e le stelle, il mare e le montagne – nel Natale è il Donatore stesso che si fa dono, poiché, nel Figlio, Dio ci dona tutto se stesso. Poteva darci di più?
Ma se è vero che l’indicatore della gratuità è il costo del dono al donatore, l’autodonazione di Dio Padre a Natale è la più gratuita per noi perché è la più costosa per lui: gli è costata il prezzo altissimo della vita di suo Figlio. E ce lo ha messo tra le mani per avere una moltitudine di figli da amare, non per disporre di una massa di servi da atterrire o da sfruttare. Dio ci ama gratis, senza costringerci, senza pretendere il contraccambio, dando a noi il potere di accoglierlo o di rifiutarlo. Ma l’operazione-Betlemme, oltre che al Padre, è costata cara anche al Figlio, come cantiamo nel Tu scendi dalle stelle: “Ahi quanto ti costò l’avermi amato!”. San Paolo scrive che Gesù da ricco che era, si è spogliato delle sue ricchezze per arricchire noi con la sua povertà (cfr 2Cor 8,9; Fil 2,6-11). “Dio si è fatto carne per farmi Dio. Amore sviscerato! – gridava rapita la Beata Angela di Foligno – Hai disfatto te per fare me”. Facendosi uomo, Cristo ha “spento” la sua gloria divina per accendere la storia dell’umanità e far “brillare” la nostra vita (cfr 2Tm 1,10). Ora ognuno di noi può dire: a Natale il Verbo si è abbassato fino a me per innalzarmi fino a sé. Mi ha amato fino a dare tutto se stesso per me.
Scriveva s. Gregorio Nazianzeno:
“Colui che dà ad altri la sua ricchezza, si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino all’annullamento. Si priva infatti della sua gloria, perché io partecipi della sua pienezza. Oh sovrabbondante ricchezza della divina bontà!” (Disc. 45).
Facendosi uomo, Cristo si unisce ad ogni uomo e crea una umanità nuova, che è al tempo stesso filiale e fraterna. Senza dire nulla, Gesù bambino cambia il cuore di chi lo contempla: ci dona il proprio cuore di figlio, totalmente abbandonato all’amore del Padre e così ci rende figli e fratelli. “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (…) Se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”, scrive s. Giovanni. Non siamo più né schiavi né orfani: possiamo chiamare Dio Abbà, Babbo caro. Dio è Padre, non padrone: a un padrone ci si assoggetta, a un padre ci si abbandona. Gesù è venuto a inaugurare una religione di figli. Non siamo più condannati ad essere “lupi” famelici e feroci gli uni per gli altri. A Natale non solo è cominciata la storia dopo Cristo: è stata spezzata la catena della solitudine, è stata troncata la spirale della violenza. Non dovevamo aspettare la rivoluzione francese per proclamare il mitico trinomio: liberté, égalité, fraternité. E’ da duemila anni che siamo diventati più che soggetti solidali: siamo diventati fratelli. Fratelli-fratelli: non nel senso estenuato di una delicata metafora, ma nel senso spirituale e perciò reale e “sanguigno” del termine: siamo infatti fratelli “di sangue”, perché circola in noi il sangue di Cristo..
2. Nella nostra cultura dell’interesse, del profitto, dello scambio, la gratuità o è latitante o conta zero, e in questa svalutazione sono andati a braccetto sia il materialismo marxista che aveva relegato la gratuità nel mondo delle favole, sia il materialismo capitalista che ha mercificato tutto, anche la gratitudine: basti pensare all’industria dei regali. Più vicino a noi, a svalutare la gratuità è ora sia la cultura neoliberista che quella neostatalista. La prima proclama un “conservatorismo compassionevole” nei confronti dei bisognosi, che vengono così ridotti da persone a numeri e oggetti di attenzione filantropica. La concezione neostatalista invece sostiene che per realizzare la solidarietà basti lo Stato sociale, il quale però può appellarsi alla giustizia, ma non certo alla gratuità. Entrambe le matrici di pensiero relegano la gratuità nella sfera privata, sottraendola a quella pubblica. A ricordarci il valore inestimabile e determinante della gratuità anche come istanza sociale, è stato ultimamente il Papa nella Caritas in veritate:
“La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. (…) Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole esser autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità” (n. 34).
Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di gratuità; non è cioè capace di promuovere uno sviluppo umano integrale quella società in cui esiste solo il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. La gratuità è il “dare per amore”. Se ci rapportiamo reciprocamente da fratelli, allora siamo tutti abbastanza poveri per dover ricevere, abbastanza ricchi per poter dare. “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”: è l’imperativo di Gesù (Mt 10,8). La gratuità sorge dal ricevere, si espande nella gratitudine, e attraverso l’ampio estuario del dare, sfocia nel mare della generosità. Il contrario della gratuità è l’avidità: la gratuità fa stare bene e mantiene giovani nello spirito; l’avidità inocula nel cuore il veleno dell’avarizia e lo invecchia.
Il nostro Don Oreste non solo ha ispirato tutta la sua vita e la Papa Giovanni XXIII all’ideale di fraternità e al principio di gratuità, ma con l’occhio del profeta aveva visto lontano, quando a proposito del Natale sulla rivista Sempre (dicembre 1984) aveva parlato del “gratuito come unico futuro possibile per l’umanità”. E spiegava così: nell’organizzazione del lavoro, il gratuito significa che scompare il padrone, sorge invece il fratello che ha capacità manageriali e le pone a servizio degli altri fratelli, impiegati e operai. Così la fabbrica o l’impresa diventano spazio di comunione, e la condivisione di tutti e di tutto – anche dei mezzi di produzione – aiuterà a superare i tristi periodi di crisi. Certamente l’indimenticabile “Don” avrà tenuto presente la testimonianza di Pippo Gemmani che per risollevare l’SCM dalla drammatica crisi del 1982 rischiò anche del proprio e mise in gioco i beni di famiglia, pur di salvare azienda e posti di lavoro. Insegna la Caritas in veritate:
“La gestione dell’impresa non può tener conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento” (n. 40).
Carissimi fratelli e sorelle, forse qualcuno di voi, dalle prime battute della mia omelia, si aspettava una riflessione meno terrosa, più celestiale. Ma io non penso di aver tradito il vangelo né di averlo avvilito o banalizzato. A Natale, per capire come è fatto Dio, non dobbiamo guardare anzitutto nell’alto dei cieli. Dobbiamo guardare questo Bambino. Il mio dito questa notte doveva osare di indicare la terra, per aiutarvi a mettere a fuoco la grotta di Betlemme. Ho cercato di farlo con senso di lealtà nei confronti del Dio fatto uomo, con senso di onestà nei vostri riguardi.
Permettete ora che io vi prenda per mano e vi porti davanti al Dio-Bambino, per adorarlo con una tra le più belle preghiere della liturgia natalizia, tutta percorsa da un soprassalto di gratitudine di fronte alla sconvolgente rivelazione dell’umanità di Dio.
“Accogli, Signore, i nostri doni, in questo misterioso incontro tra la nostra povertà e la tua grandezza: noi ti offriamo le cose che tu stesso ci hai dato, e tu donaci in cambio te stesso”.
+ Francesco Lambiasi