Lettera ai presbiteri sulla comunione
Carissimi Fratelli e Amici,
come sapete, mi ero impegnato a scrivervi dopo la positiva e assai apprezzata esperienza delle nostre due settimane di fraternità sacerdotale, svoltesi a Loreto nell’autunno scorso. Di volta in volta ho dovuto rimandare l’impegno, e solo ora riesco ad assolverlo, approfittando di un tranquillo frammento di ristoro. Nel frattempo si è concluso, con la festa diocesana della scorsa Pentecoste, il nostro cammino annuale, dedicato alla contemplazione del volto del Signore. Ora da qualche settimana si è avviato l’anno sacerdotale, indetto dal Santo Padre allo scopo di “promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte e incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi”. La lettera inviataci dal Papa per l’occasione ci aiuta a fare sintesi del cammino percorso e a prepararci come presbiterio per il tratto di strada che ci attende.
1. Ricordiamo: ci eravamo dati l’appuntamento a Loreto non per svolgere un convegno di studio o di aggiornamento teologico-pastorale. Volevamo semplicemente fare una esperienza di fraternità attraverso la condivisione della nostra fede, dei nostri ideali ed affetti, in una parola della nostra vita sacerdotale. L’obiettivo non era di parlare di «pastorale», ma di noi pastori, cercando di guardarci con gli occhi di Cristo. Ci siamo concentrati su quel cristiano che è in ogni presbitero e che, solo se cresce nella fede, può far crescere – attraverso il suo specifico ministero – anche i fratelli che sono affidati alla sua carità pastorale. «Resettare» la nostra relazione con Cristo, reimpostarla sulla fede in lui come il solo Signore della storia e l’unico Sposo che ci ha preso il cuore ha prodotto il benefico effetto di aiutarci a rinnovare la nostra carta d’identità, che di tanto in tanto rischia di risultare «scaduta» o addirittura di andare smarrita. E insieme volevamo aggiornare il nostro celebret. Fuor di metafora, abbiamo chiesto e ottenuto la grazia di confermare la nostra fede battesimale e le nostre promesse sacerdotali.
Sappiamo quanto il Curato d’Ars fosse umilissimo come persona, ma rischiamo di dimenticare quanto sentita fosse da lui la consapevolezza di rappresentare – non certo per suo merito – un incalcolabile capitale di grazia per i 230 abitanti di quel minuscolo villaggio: “Un buon pastore è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia”. Il metodo pastorale di san Giovanni M. Vianney non andava alla ricerca spasmodica di «effetti speciali», ma era fatto di una radicale e totale immedesimazione nel divino, umanissimo Buon Pastore, al punto che, per ottenere la conversione della sua parrocchia, si diceva disposto “a soffrire tutto quello che Dio avrebbe voluto per tutto il tempo della sua vita”. Per questo aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”. Solo un’alta tensione spirituale ha permesso al santo Curato di collocarsi nella giusta posizione nei confronti della sua comunità: non come un funzionario puntiglioso o un freddo burocrate, né tantomeno come un padrone autoritario e scostante, ma come un pastore d.o.c.: tenero e tenace, fedele e premuroso. Nonostante il tormento della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale, che lo portava a desiderare di andarsene lontano “a piangere la sua povera vita”, solo l’obbedienza alla volontà di Dio, espressa dal vescovo, e la passione bruciante per la salvezza delle anime a lui affidate, hanno convinto il santo Curato a restare al suo posto per la tutt’altro che modica cifra di 41 anni, con giornate di ben 16 ore al confessionale. E così è diventato modello attraente di carità pastorale per tutti i sacerdoti in cura d’anime.
2. Dopo l’anno dedicato alla contemplazione del volto del Signore, con il sostegno della sua grazia dedicheremo il prossimo anno pastorale al mistero della santa Chiesa. Lo sappiamo bene: mentre gli anni si succedono uno dopo l’altro, Cristo e la Chiesa non sono due misteri che si aggiungono l’uno all’altro. Se Cristo è la vite e noi siamo i tralci, se Cristo-Sposo e la Chiesa-Sposa sono indissolubilmente due in uno, allora il mistero non raddoppia, ma rimane unico: la Chiesa è Cristo con noi per il mondo. Per esprimere questa unità indissolubile tra il Signore Gesù e la sua Sposa abbiamo riassunto il tema dell’anno prossimo nelle parole: “… e di Me sarete testimoni – Mille voci, un solo coro”. Sì, siamo testimoni di Lui non alla spicciolata, come individui «sfusi», disarticolati e dispersi, ma come figli radunati e uniti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. La nostra comunione è la prima, insostituibile testimonianza che siamo chiamati a dare al mondo. Al di sopra di ogni progetto, prima di qualsiasi programma, come condizione previa a qualunque attività o iniziativa, viene quella unità tra i figli di Dio, per cui Gesù ha dato il suo sangue. È realizzando questa comunione di amore fraterno che la Chiesa si manifesta come «sacramento», ossia come “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Questa è stata la grande lezione del Vaticano II. E questa è l’indicazione prioritaria, l’impegno programmatico che ci ha consegnato Giovanni Paolo II in quella «carta di navigazione» per la Chiesa del Terzo Millennio, qual è la Novo millennio ineunte.
“Se abbiamo veramente contemplato il volto di Cristo, la nostra programmazione pastorale non potrà non ispirarsi al «comandamento nuovo» che Gesù ci ha dato: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri»(Gv 13,34)”.
Non c’è margine di dubbio: essere testimoni di Lui è lo stesso che essere testimoni della nostra comunione con Lui e, tra di noi, in Lui.
Ritorniamo a Loreto: la corale soddisfazione dei partecipanti (ben 102!) ci porta a dire che quei giorni ci hanno fatto bene. E ci fa bene farne memoria grata, perché ci stimola non tanto a mitizzare quell’esperienza, ma a prolungarne lo spirito nella quotidianità della nostra vita. Mi sembra che il «tesoretto» di Loreto si possa racchiudere in una sola parola: comunione. In fondo in quei giorni non ci siamo dedicati a fare altro che… esercizi di comunione. Questa comunione d’anima e di vita riscontra delle caratteristiche a noi ben note, ma di cui spero utile fare un veloce «ripasso». Le nostre sono relazioni ispirate al modello trinitario (3.1); plasmate dalla grazia della Pasqua (3.2); radicate in una comunione sacramentale (3.3); e si esprimono in una fraternità concretamente vissuta (3.4).
3.1. La Chiesa è interamente sospesa al cielo. Per risalire alla sorgente della comunione ecclesiale, dobbiamo puntare in alto i nostri cuori: dobbiamo contemplare la santa Trinità, la fonte prima e il modello insuperabile della comunione ecclesiale. Nel Dio uni-trino vediamo i Tre stretti in un rapporto talmente intenso che è legittimo affermare: ogni persona divina non ha una relazione con le altre, ma è in relazione – anzi è in se stessa relazione – alle altre due. Il Padre non si ripiega morbosamente su di sé (non sarebbe vero ‘padre’!), ma esce da sé per aprirsi totalmente al Figlio, e così il Padre e il Figlio si aprono e si incontrano nello Spirito Santo. Possiamo quindi dire che le tre Persone sono ognuna con le altre, per le altre, nelle altre. Ecco le preposizioni trinitarie: con-per-in. L’esatto contrario delle relazioni anti-trinitarie: gli uni senza-contro-sopra gli altri.
La riscoperta della Chiesa-comunione è andata di pari passo con la riscoperta della Trinità come mistero centrale della fede cristiana: essendo Dio una comunione di persone, la forma di vita che più esprime tale realtà non può che essere la vita di comunione nella comunità ecclesiale. Non è il triangolo né il trifoglio l’immagine più vera della santa Trinità, ma la comunione tra “due o tre” fratelli che vivono con un cuore solo e un’anima sola. C’è stato un tempo in cui la Trinità era adorata nei cieli e nell’intimo dei cuori, fatti sua dimora. L’inabitazione della Trinità è stata verità feconda, che ha prodotto una spiritualità di ottima lega. Ora è giunta l’ora di passare dalla dimensione intrapersonale – la Trinità dentro di me – alla dimensione interpersonale – la vita della Trinità tra di noi. Dobbiamo transitare dall’intimo al comunitario, dall’io al noi, per mostrare il contagioso potenziale di comunione del grande mistero del Dio trino e uno. Giovanni Paolo II faceva discendere dalla contemplazione del modello trinitario la «spiritualità di comunione», che definiva così:
“Spiritualità della comunione significa innanzitutto uno sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto”.
«Spiritualità della comunione» è vivere una tale fraternità che essa non si potrebbe spiegare se Dio non fosse uno e trino. Alla auspicabile domanda: perché i cristiani si amano tanto?, dovrebbe scattare immediata la risposta: perché il nostro è un Dio di persone che si amano, al punto da essere tre in uno. Ma non possiamo contemplare il sole abbagliante della comunione divina, senza lasciarci pungere da qualche interrogativo: sono veramente «trinitarie” le nostre relazioni? Se la Chiesa è la “misteriosa estensione della Trinità nel tempo” (de Lubac), possiamo dire che la nostra comunione è veramente una «prolunga» della comunione trinitaria nel nostro presbiterio? Gli altri vedendoci dovrebbero dire: “Guarda i preti come si amano; guarda quanto si stimano, si rispettano e si aiutano!”.
3.2. Sospesa al cielo trinitario, la Chiesa è anche tenacemente ancorata al Calvario. La vita della santa Trinità, per arrivare fino a noi, deve passare per lo svincolo del Golgota. La nostra comunione fraterna non è idillio patetico o sterile tenerume: essa abita in via della croce. Occorre imparare a perdere. È necessario che muoia il mio io possessivo e vorace, è indispensabile non essere più io a vivere, ma Cristo in me, per poter condividere “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Quei sentimenti sono l’umiltà: Cristo da ricco che era si fece povero per noi; la gratuità: non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; la carità: ci ha amato e ha dato se stesso per noi; il perdono: mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi. Forse nessuno meglio dell’indimenticabile patriarca Atenagora ha espresso in modo efficace che cosa significhi percorrere la via della croce: “Occorre fare la guerra più dura che è quella contro se stessi, bisogna riuscire a disarmarsi. Ho fatto questa guerra per anni ed è stata terribile, ma adesso sono disarmato, non ho più paura di nulla poiché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più in guardia, gelosamente aggrappato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non tengo in modo particolare alle mie idee, ai miei progetti; se me ne vengono presentati dei migliori, o anche non migliori ma buoni, li accetto senza rimpianti. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, reale, vero è sempre il meglio per me. Ecco perché non ho più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, se ci si apre al Dio-uomo che fa nuove tutte le cose, allora lui cancella il brutto passato e ci rende un tempo nuovo nel quale tutto è possibile”.
3.3. La fraternità sacerdotale non è di tipo funzionale o puramente morale, ma di natura sacramentale, in quanto trova la sua radice nel sacramento dell’ordine, il quale a sua volta si radica nel battesimo. Pertanto si può dire che ogni «confratello» mi è due volte fratello. Ma ci riconosciamo fratelli? E prima ancora ci conosciamo veramente?
«Conoscere» gli altri, nel linguaggio biblico, non significa spiattellare a raffica dei giudizi su di loro, sulla base di fallibilissime impressioni, per altro spesso pre-giudicate da preconcetti rozzi e sommari. Per questa via, l’altro resta altro da me, non entra nella mia vita: lui se ne sta di là e io me ne sto di qua. L’altro non mi diventa «prossimo»: mi diventa tale solo se io mi «approssimo» a lui, se mi decido a uscire da me. Se mi metto in cammino e mi avvicino a lui. Se mi impegno lealmente a valicare le frontiere dei sospetti e a frantumare le barriere delle diffidenze. Se faccio mie le sue sofferenze e le sue gioie. Questa è stata la via percorribilissima di Loreto, al punto che in quei giorni varie volte ci è capitato di dire: “Credevamo di conoscerci, ma forse stiamo cominciando adesso. E pensare che bastava così poco!”.
3.4. A Loreto ci siamo ricordati a vicenda che “il primo dono che i presbiteri devono fare alla Chiesa e al mondo non è l’attivismo, ma la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta”. Amarsi concretamente da e tra fratelli significa ricordare sempre che la carità non è un argomento, è un esercizio; si sperimenta, non si indaga; non richiede di essere elucubrata, domanda piuttosto di essere vissuta. Gli atteggiamenti da coltivare sono la stima, l’ascolto, l’attenzione, l’aiuto reciproco, il perdono, la condivisione, l’incontro.
A Loreto ci ha aiutato anche questo passo di san Bernardo:
“Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha trascinati all’inferno. Il demonio teme coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio con un cuore solo, uniti a Dio e fra di loro nell’amore: questi producono al demonio dolore, timore e rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma ottiene la benevolenza di Dio, come egli stesso attesta nel Cantico: «Hai ferito il mio cuore, o sorella e sposa mia»: ci si riferisce all’unità dei pastori e dei fedeli”.
4. A Loreto abbiamo contemplato il Signore e abbiamo visto brillare la sua luce sul volto della Chiesa, che ci è riapparsa nella sua identità più vera, come la Chiesa-comunione. Qualche settimana dopo, durante una udienza generale, Papa Benedetto XVI ha scolpito il profilo della Chiesa con rara efficacia: “La Chiesa è un corpo, non una corporazione. Non è una organizzazione, ma un organismo”. Confesso che quando leggo queste affermazioni, per contrasto mi ritorna davanti agli occhi una pagina del catechismo della mia infanzia: una piramide con su in alto il papa; poi, un gradino sotto, a destra e sinistra, un cardinale e un vescovo; quindi un sacerdote e un frate, e in basso tanti laici. Era l’immagine che aveva prevalso per secoli, quella di una società piramidale sbilanciata sull’aspetto visibile e sociale, a svantaggio della dimensione interiore e carismatica.
Il Vaticano II ha proposto una visione profondamente nuova della Chiesa, o meglio ha riproposto la visione profondamente antica, marcando la fondamentale uguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio, in cui la comunione delle persone precede la distinzione dei ruoli e «mette in rete» le varie funzioni. Secondo la Lumen Gentium la Chiesa è «comunione gerarchica», in cui la dimensione istituzionale è inseparabile da quella misterica, ma secondo un rapporto ben chiaro: la struttura è a servizio della comunione, e non viceversa. Pertanto se la comunione senza l’istituzione sarebbe come un’anima senza il corpo, l’istituzione senza la comunione sarebbe come un corpo senza l’anima: un inerte, gelido cadavere.
Per questo Giovanni Paolo II nella lettera già citata affermava: “Se la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un’anima al dato istituzionale con un’indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del popolo di Dio”.
5. Solo la diocesi viene chiamata Chiesa particolare in senso pieno, perché solo essa è immagine e presenza adeguata della Chiesa universale, in quanto ne possiede tutti gli elementi costitutivi: la parola rivelata, i sacramenti, la successione apostolica. In essa si manifesta e si fa presente la Chiesa di Cristo, una santa cattolica e apostolica. Pertanto la diocesi non si riduce a una organizzazione giuridica o a una circoscrizione amministrativa, ma è vera comunità di credenti. La conseguenza per noi sacerdoti è che il nostro ministero possiede una radicale forma comunitaria: può essere assolto solo nella piena comunione dei presbiteri con il vescovo e si deve tradurre in una fraternità sacerdotale affettiva ed effettiva. Vorrei qui aggiungere una parola sulla nostra incardinazione nella diocesi. Lo sappiamo: non si tratta di un vincolo di ordine puramente canonico e disciplinare, ma di un valore qualificante il nostro profilo spirituale. Concretamente l’incardinazione dice l’appartenenza e la dedicazione del sacerdote alla Chiesa diocesana fino al dono della vita. Normalmente questa dedicazione si traduce nel servizio pastorale a una comunità parrocchiale o a un settore della vita ecclesiale.
6. Torna illuminante l’esempio del santo Patrono dei parroci. San Giovanni M. Vianney non ha mai considerato la sua destinazione da parte del vescovo a quell’oscuro villaggio di Ars come una umiliante emarginazione. Era piuttosto lui che se ne sentiva indegno. Permettetemi di dire: anche un sacerdote (!) ha diritto ad essere felice, ma lo può essere solo se considera la missione che gli è stata affidata per quello che è: una missione. Non come un traguardo a lungo sospirato e «fortunatamente» o anche «meritatamente» (?!) raggiunto, né come un peso sfiancante che non si vede l’ora di scaricarsi di dosso, e neanche come una proprietà privata da presidiare gelosamente. Un presbitero può essere letteralmente beato se guarda al compito richiestogli come un dono gratuito dall’inizio alla fine, una vera e propria grazia «gratis data», insomma un regalo immeritato e sorprendente. Del resto chi è mai all’altezza di questi compiti? Può vivere e servire i fedeli in perfetta letizia solo il sacerdote che non si considera mai sprecato per «quella» parrocchia; che non si accredita come il padrone della fede della sua gente, ma solo come l’umile, fedele collaboratore della loro gioia. La verifica più attendibile di questi atteggiamenti si ha quando arriva l’ora di rinnovare l’obbedienza al vescovo e di dare la disponibilità a cambiare destinazione. Se il presbitero interessato non legge quella decisione in termini di promozione-retrocessione, di sorpasso o di marcia-indietro. Se è convinto che l’obbedienza consiste nel “dare volentieri tutto di sé, in ogni incarico affidato, anche se umile e povero”. Se si fida di quel Dio che sa scrivere sempre dritto anche sulle righe storte degli uomini e, per coloro che lo amano, sa volgere tutto in bene. Se, pur soffrendo la fatica del distacco da una comunità fedelmente amata e gratuitamente servita, quel prete si rimette generosamente e – perché no? – gioiosamente in gioco, perché dal giorno dell’ordinazione fino all’ultimo ha rinunciato a programmarsi la vita. Se aiuta i suoi fedeli a fare un salto nella fede per accogliere colui che viene nel nome del Signore e per benedire colui che nel nome del Signore va a lavorare in un’altra parte della vigna… beato quel prete: riceverà il centuplo in fratelli, sorelle e beni già su questa terra, e poi alla mensa del Regno avrà l’onore di essere servito dal Signore in persona!
7. Proviamo ora a declinare in modo più concreto questa spiritualità della comunione segnalando due patologie che possono insidiare la salute di quel «corpo dei Tre» qual è la Chiesa (Tertulliano). Si tratta di due pericoli diametralmente contrapposti e che hanno nomi grigi e tristi: individualismo e centralismo.
L’individualismo si ha quando ogni membro del corpo di Cristo vuol essere il tutto; il centralismo quando invece, a voler essere il tutto, è un singolo membro del corpo. Nel primo caso si afferma talmente la diversità da far morire l’unità; nel secondo caso avviene il contrario. L’individualismo frammenta e disperde; il centralismo assorbe, soffoca e fagocita. Non è il caso di nascondersi dietro un dito: tutti e ciascuno, nelle nostre rispettive responsabilità, corriamo ambedue questi rischi. Comunque l’una e l’altra patologia sono in fondo determinate dallo stesso «embolo» che può causare una pericolosa occlusione nel corpo ecclesiale: quell’embolo ha un nome preciso, egoismo. Al riguardo così si esprimeva Giovanni Paolo II: “Spiritualità della comunione è saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie”.
8. Competizione, diffidenza, carrierismo…: è una cupa litania di veri e propri peccati contro lo Spirito Santo, il cui «carisma» è invece quello di unificare diversificando, di abbracciare senza soffocare, di raccogliere e concentrare senza mai trattenere. È il moto di sistole e diastole della Pentecoste. Solo un presbiterio che si lascia guidare dallo Spirito e nutre sincera fiducia nel ministero del vescovo può superare quelle inconfessabili «tentazioni egoistiche» e aiutare la comunità diocesana a prendere il largo. Del resto ogni comunità cristiana, di qualsiasi tipo essa sia, è chiamata a «dire» al mondo alcune importanti realtà. Le quali, se «parlate» o enunciate verbalmente, possono suscitare forme più o meno larvate di scetticismo, ma se realizzate, acquistano una grande forza missionaria, una carica potente di segno, una capacità di esprimere realtà che spesso le parole hanno logorato e non riescono più a dire. È per questo che si può affermare senza dubbio che la comunione è la prima missione: scopo dell’azione missionaria della Chiesa non è forse di riunire i «figli dispersi» in una sola famiglia? e di creare delle comunità fraterne che testimonino l’amore del Dio-Trinità per il mondo, un amore che trasforma fin d’ora i rapporti umani? Ma c’è di più. Coloro che si allenano ad amare i fratelli con i quali condividono il carisma del sacramento dell’ordine, trovano più facile la missione, dal momento che è lo stesso Spirito di donazione che agisce. L’amore che unisce è lo stesso che spinge a comunicare anche agli altri l’esperienza di comunione con Dio e i fratelli. Crea cioè gli apostoli.
In questo modo sarà più facile superare il rischio di insidiose «schizofrenie»: quelle che dividono contemplazione e azione, comunione fraterna e ministero pastorale. “Senza lasciarsi ostacolare dalle preoccupazioni apostoliche”, i presbiteri “troveranno nell’esercizio stesso della carità pastorale il vincolo di perfezione sacerdotale che ridurrà a unità la loro vita e azione”.
9. Valga come conclusione questo passo tratto dal Catechismo degli adulti della CEI: “La Diocesi è il fondamentale soggetto pastorale e missionario. Ad essa devono fare riferimento tutti i fedeli e le loro molteplici aggregazioni, quali le parrocchie, le comunità religiose, le associazioni, i movimenti, le piccole comunità, i gruppi. Concretamente il vescovo, con la cooperazione del presbiterio e con l’opportuna consultazione di altre componenti ecclesiali, stabilisce alcuni obiettivi, linee e impegni comuni, evitando però l’uniformità che tutto appiattisce, lasciando spazio alla creatività e originalità dei vari soggetti. Da parte loro, le aggregazioni di fedeli devono guardarsi dalla tentazione dell’autosufficienza e, pur attuando iniziative proprie di formazione e di apostolato, devono rimanere aperte al dialogo rispettoso e cordiale, lasciando spazio per momenti di incontro e di collaborazione con altre realtà ecclesiali. La carità esige sia che si valorizzino i carismi particolari sia che si costruisca una unità pastorale concreta a livello diocesano”.
10. È ora di congedarmi. Lo faccio con una cascata di auguri che ci scambiamo cordialmente a vicenda.
Auguriamoci di non avere niente di più caro della comunione con il Signore e tra di noi, e di diventare un presbiterio di fratelli sempre più uniti, sempre più Uno…
Auguriamoci di non dimenticare mai che l’unità nella Chiesa ha avuto il costo più alto, quello del sangue del Signore crocifisso, e si può realizzare tra di noi solo se siamo tutti pronti a pagare il prezzo più caro, quello di immobilizzare il proprio io e metterselo sotto i piedi…
Auguriamoci di rendere sempre più abitabile il nostro presbiterio, in cui non manchi mai l’ossigeno della fede, la luce della verità, il profumo della gratitudine, il buon pane dell’amicizia, il vino frizzante della gioia…
Auguriamoci di mettercela tutta per essere uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e di convergere con serena determinazione anche nell’opinabile, verso scelte ponderate e condivise, senza che le diverse legittime «visioni» degenerino in «divisioni» laceranti e conflittuali…
Auguriamoci di non aver paura di tendere all’unità perfetta, in un solo Spirito e in un solo Corpo, perché non si dà unità più feconda di quella che non spegne le differenze, ma le tiene in vita; non le fa scontrare in una scomposta, assordante dialettica, ma riesce a farle confluire nella melodia polifonica di un solo coro, di un solo corpo…
Chiediamo a Maria, madre della nostra Chiesa, di far diventare preghiera questi desideri e di inoltrarli a suo Figlio con una parola di «raccomandazione» speciale e urgente. E chiediamole pure di accompagnarci nel cammino di questo anno sacerdotale con il suo sguardo misericordioso e il suo dolcissimo sorriso.
Riconoscete in questo mio saluto tutta la stima, la gratitudine e la cordialità che meritate e di cui sono capace
aff.mo nel Signore
Rimini, 4 agosto 2009, memoria del santo Curato d’Ars
L’APPARTENENZA E LA DEDICAZIONE ALLA CHIESA PARTICOLARE
Come ogni vita spirituale autenticamente cristiana, anche quella del sacerdote possiede un’essenziale e irrinunciabile dimensione ecclesiale: è partecipazione alla santità della Chiesa stessa, che nel Credo professiamo quale «Comunione dei Santi». La santità del cristiano deriva da quella della Chiesa, la esprime e nello stesso tempo l’arricchisce. Questa dimensione ecclesiale riveste modalità, finalità e significati particolari nella vita spirituale del presbitero, in forza del suo specifico rapporto con la Chiesa, sempre a partire dalla sua configurazione a Cristo Capo e Pastore, dal suo ministero ordinato, dalla sua carità pastorale.
In questa prospettiva occorre considerare come valore spirituale del presbitero la sua appartenenza e la sua dedicazione alla Chiesa particolare. Queste, in realtà, non sono motivate soltanto da ragioni organizzative e disciplinari. Al contrario, il rapporto con il Vescovo nell’unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del Popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la configurazione propria del sacerdote e della sua vita spirituale. In questo senso la incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta anche una serie di atteggiamenti e di scelte spirituali e pastorali, che contribuiscono a conferire una fisionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero.
È necessario che il sacerdote abbia la coscienza che il suo «essere in una Chiesa particolare» costituisce, di sua natura, un elemento qualificante per vivere la spiritualità cristiana. In tal senso il presbitero trova proprio nella sua appartenenza e dedicazione alla Chiesa particolare una fonte di significati, di criteri di discernimento e di azione, che configurano sia la sua missione pastorale sia la sua vita spirituale.
Al cammino verso la perfezione possono contribuire anche altre ispirazioni o riferimenti ad altre tradizioni di vita spirituale, capaci di arricchire la vita sacerdotale dei singoli e di animare il presbiterio di preziosi doni spirituali. È questo il caso di molte aggregazioni ecclesiali antiche e nuove, che accolgono nel proprio ambito anche sacerdoti: dalle società di vita apostolica agli istituti secolari presbiterali, dalle varie forme di comunione e di condivisione spirituale ai movimenti ecclesiali. I sacerdoti, che appartengono ad ordini e a congregazioni religiose, sono una ricchezza spirituale per l’intero presbiterio diocesano, al quale offrono il contributo di specifici carismi e di ministeri qualificati, stimolando con la loro presenza la Chiesa particolare a vivere più intensamente la sua apertura universale.
L’appartenenza del sacerdote alla Chiesa particolare e la sua dedicazione, fino al dono della vita, per l’edificazione della Chiesa «nella persona» di Cristo Capo e Pastore, a servizio di tutta la comunità cristiana, in cordiale e filiale riferimento al Vescovo, devono essere rafforzate da ogni altro carisma che entri a far parte di un’esistenza sacerdotale o si affianchi ad essa.
Perché l’abbondanza dei doni dello Spirito venga accolta nella gioia e fatta fruttificare a gloria di Dio per il bene della Chiesa intera, si esige da parte di tutti, in primo luogo, la conoscenza ed il discernimento dei carismi propri ed altrui, e un loro esercizio accompagnato sempre dall’umiltà cristiana, dal coraggio dell’autocritica, dall’intenzione, prevalente su ogni altra preoccupazione, di giovare all’edificazione dell’intera comunità al cui servizio è posto ogni carisma particolare. Si chiede, inoltre, a tutti un sincero sforzo di reciproca stima, di rispetto vicendevole e di coordinata valorizzazione di tutte le positive e legittime diversità presenti nel presbiterio. Anche tutto questo fa parte della vita spirituale e della continua ascesi del sacerdote.
Giovanni Paolo II
Pastores dabo vobis, n. 31