Omelia tenuta in occasione della chiusura dell’Anno Elisabettiano delle Maestre Pie dell’Addolorata
La vita terrena di Gesù di Nazaret si concluse miseramente su una croce il 14 di nisan dell’anno 30 dell’era cristiana. Da allora si pone una domanda letteralmente “cruciale”, poiché la croce taglia in due l’umanità tra credenti e non credenti: fu un fallimento? Alcuni, anche tra coloro che l’ammirano, pensano di sì. Gesù sarebbe stato un “grande”, magari tra i più grandi dell’umanità. Ma il suo sogno di una nuova civiltà dell’amore si infranse crudelmente quel giorno all’ora nona, tra quei due pali incrociati, su cui era stato confitto il suo giovane corpo. E ancora una volta stravinse l’ingiustizia, che continua tutt’oggi a celebrare i suoi trionfi nella storia…
1. Quando l’evangelista Giovanni – l’ultimo dei quattro – scriveva il racconto del processo e della passione di Gesù, già da tempo l’impero romano stava sferrando una caccia spietata all’ultimo dei cristiani, tentando il completo sterminio di quella “funesta superstizione”, come veniva considerata a Roma la nuova religione. Ma perché così “funesta”, dal momento che l’Urbe non aveva mai avuto problemi ad accogliere nel suo pantheon le divinità dei vari popoli che man mano entravano a far parte dell’impero? E’ davvero strano che i romani, pur così tolleranti in fatto di religione, abbiano ferocemente perseguitato i cristiani, che pure professavano e praticavano il più sincero e convinto lealismo nei confronti dell’impero. Lo scontro tra il cristianesimo e il paganesimo avvenne attorno a un titolo – quello di signore – che l’imperatore pretendeva per sé, ma che i cristiani riservavano solo a Cristo. In base ad una lettera di Plinio all’imperatore Traiano – datata attorno al 112 d. C. – si desume che ai cristiani si imponeva – a prezzo di vita o di morte – di offrire un sacrificio alla statua dell’imperatore. Così pure dal racconto del martirio di san Policarpo si evince che durante i processi si comandava ai cristiani di acclamare Kyrios Kaisar!, senza di che non potevano avere salva la vita. Anche gli Atti degli apostoli riferiscono di un’accusa che i giudei di Salonicco avrebbero presentato alle autorità cittadine contro i cristiani, dichiarando che “essi vanno contro i decreti dell’imperatore, perché affermano che c’è un altro re: Gesù” (17,7).
Era stato proprio questo il capo d’accusa che portò alla crocifissione il Nazareno, così come recitava l’ambiguo cartiglio collocato sul palo verticale del patibolo: “Gesù Nazareno, il re dei giudei”. L’iscrizione riportava la sentenza emessa dal procuratore romano Ponzio Pilato al termine di un processo per direttissima: il reato capitale addebitato all’imputato era stato il crimine di lesa maestà contro Tiberio Cesare, essendosi Gesù proclamato re messia. Anche su questo punto tutti e quattro gli evangelisti concordano alla lettera, e mettono sulle labbra di Pilato il medesimo interrogativo: “Sei tu il re dei giudei?”. La formulazione enfatica della domanda andrebbe resa così: “Sei proprio tu il re dei giudei, tu che ti presenti come un povero straccione, tu che mi sei stato consegnato dai capi del popolo come sobillatore delle masse, tu che non hai né armi né soldi né soldati, tu che sei stato ‘scaricato’ da questa gentaglia inferocita, tradito e piantato in asso perfino dai tuoi discepoli… Dunque tu, proprio tu saresti il re dei giudei?”.
Ritorna la domanda: perché la persecuzione? Perché, se Gesù era ormai morto e i cristiani non avevano di mira alcuna rivoluzione contro l’impero, anzi riconoscevano apertamente l’autorità dello stato, perché essi dovevano venire così ferocemente perseguitati? C’era un punto capitale sul quale i seguaci di Cristo non erano affatto inclini a cedere: sì, erano disposti a pregare per l’imperatore, ma non a piegare il ginocchio e a pregare l’imperatore. Insomma il cristianesimo veniva a contestare in radice il carattere divino, assoluto dell’impero. Ecco il potenziale sovversivo rappresentato dal credo cristiano: l’affermazione che Gesù, e solo lui, è il Signore, esclude la possibilità di consegnare la propria esistenza e la propria coscienza a chicchessia.
2. Oggi, nel nostro linguaggio, il titolo di signore si è totalmente banalizzato fino a diventare l’epiteto più frequente, apposto prima di ogni nome e cognome, come quando si dice il signor Rossi o il signor Bianchi. Ma nel linguaggio biblico Signore era l’appellativo che veniva attribuito solo a Dio. Anzi veniva considerato l’equivalente per non pronunciare con labbra umane il tetragramma sacro JHWH, e quando la Bibbia venne tradotta in greco fu proprio il vocabolo Kyrios a tradurre l’ebraico Adonai, appunto “Signore”. La fede cristiana nasce il mattino di Pasqua con la risurrezione di Cristo, quando “dopo essersi fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce, Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” (cfr Fil 2,6-11).
In questa semplicissima proposizione c’è tutta la nostra fede: dire che Gesù Cristo è Signore, significa nientepopodimenoché affermare che Gesù è Dio, ed è Dio perché è risorto, ed è risorto perché è morto e morto di croce. Questa è la cellula-base del kerygma cristiano: ogni formula dogmatica successiva non ne sarà che lo sviluppo, l’approfondimento, la “definizione” che permetterà il passaggio dal kerygma al dogma. Pertanto nel periodo delle prime generazioni cristiane quel grido e quel canto – “Gesù è il Signore!” – stava a significare la posizione oggettiva di Cristo al di sopra di ogni dignità e di ogni altro potere: Cristo crocifisso e risorto è il vero re dell’universo e l’unico Signore della storia.
Nella frase “Gesù è il Signore!”, c’è anche un aspetto soggettivo, che significa dire da parte di chi la pronuncia con fede: “Gesù è il vero e unico Signore della mia storia!”. Che è come dire: è Lui il re del mio cuore; è Lui la ragione e il senso della mia povera vita; è Lui la chiave, il centro e il fine della mia esistenza. San Paolo dirà che il cristiano, dopo il battesimo, ormai appartiene al Signore, “fa corpo” con lui, e perciò non può più vivere per se stesso, ma vive “per il Signore” (cfr Rm 14,7-8). Vivere per il Signore è il nuovo nome della vita nuova.
3. Oggi noi rendiamo gloria a Cristo per la sua serva, la beata Elisabetta Renzi, una donna cristiana consacrata, in cui possiamo contemplare cosa significhi gridare con la vita questo vangelo: “Gesù è il mio Signore”. Io credo che ogni cristiano è chiamato a vivere una sorta di “quinto vangelo” che un giorno nella casa del Padre, quando non ci saranno più né libri sacri né sacre Scritture, potremo leggere, ormai completo, nella sua stesura sterminata. Ogni santo non sarà che un versetto di questo libro senza finale. Ed io oso pensare che questo sarà il versetto che, nel coro dei beati, canterà senza fine la beata Elisabetta: “Io porto Colui che mi porta”. In questo Anno per noi Elisabettiano e per la Chiesa universale dedicato alla memoria di san Giovanni M. Vianney, mi piace pensare che quando saremo in cielo la voce della nostra Beata si intreccerà con quella del santo Curato, non solo perché i due sono stati quasi perfettamente coetanei – essendo nati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altra (nello stesso anno: 1786), ed essendo lui morto appena dieci giorni prima di lei (1859). Ma soprattutto perché si riscontra una perfetta sintonia tra i due, avendo anche il santo Curato un’espressione letteralmente identica a quella della Beata, quando affermava a proposito della processione del Corpus Domini: “Io porto Lui, ma è Lui che porta me”.
La beata Elisabetta è stata davvero tutta del Signore e il Signore è stato davvero tutto per lei. Ecco come esprimeva il succo della sua storia d’amore con il Signore: “Vorrei che tutto il mio essere tacesse e in me tutto adorasse il Signore, e così penetrare ognor più in Lui ed esserne così piena da poterlo dare a quelle povere anime che non conoscono il dono di Dio”. E ancora: “Io lo amo tanto il mio Dio, che è geloso di avermi tutta per sé”. E nei primi regolamenti scritti dalla Madre, si legge:
“Il solo nome di Povere del Crocifisso, ritirate dal mondo fa concepire la giusta idea di ciò che deve essere questa casa: cioè, un’unione di anime fervorose, distaccate dal mondo, affezionate soltanto a Gesù Crocifisso, ed imitandolo per quanto possono nella povertà, nella mortificazione e nella carità, cercando solamente di fare la più amorevole conversazione con lo Sposo divino, e di sentire l’amorosa sua voce nella solitudine e nel raccoglimento di spirito, dove ha promesso di condurre le sue spose, onde parlare loro al cuore”.
Carissime Sorelle della Congregazione delle Maestre Pie dell’Addolorata! Permettetemi di richiamarvi le parole delle vostre Costituzioni: “La Maestra Pia si consacra totalmente a Gesù Crocifisso; l’unione con Lui sarà così intima e così profonda che, <come l’anima è la vita del corpo e lo dirige in tutti i sensi, così Gesù Crocifisso deve essere la vita della nostra anima>”. Vi auguro e prego perché niente spenga mai il fuoco dell’amore acceso dalla vostra beata Madre nella nostra Chiesa riminese. Vi auguro e prego che niente vi separi dall’amore del vostro unico Sposo e Signore, neanche le pur legittime preoccupazioni per le opere della Congregazione. Vi auguro e prego che neppure il comprensibile rammarico per il calo numerico delle vocazioni e delle professioni raggeli la speranza di un soprassalto di comunione tra di voi e di slancio missionario per i tanti giovani che hanno bisogno della vostra dedizione sempre più generosa e competente.
A voi, carissime Sr Aurelia Rodriguez e Sr Magdalena Valadez, che state per ricevere il mandato per la missione in Zimbabwe, auguro e assicuro la mia preghiera perché la vostra vita e la vostra nuova missione sia la trascrizione esistenziale, fedele e coerente, del logo dell’Anno Elisabettiano: “Allegri, perché il buon Dio ci ama!”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 21 novembre 2009
+ Francesco Lambiasi