Omelia tenuta nella chiesa di s. Fortunato in Rimini il 20 settembre 2009, nel corso della celebrazione eucaristicaper l’ammissione tra i candidati al diaconato e al presbiterato di Ugo Moncada e Gino Gessaroli
Diciamo croce e pensiamo a dolore. Ma se guardiamo al Crocifisso, diciamo croce e vogliamo dire amore. E, dicendo amore, pensiamo a felicità: non c’è forse parentela stretta tra amore e felicità? Se non che nell’immaginario collettivo è proprio questa – felicità – la parola che non compare mai nella lista dei sinonimi di ‘croce’, ma la si ritrova piuttosto in quella dei termini contrari. Per un veloce riscontro di queste associazioni di idee e accostamenti di parole, si potrebbe consultare il thesaurus del programma word, dove si contano ben 14 sinonimi di ‘croce’ (pena, tormento, supplizio, disgrazia ecc.), mentre voci come felicità, gioia, piacere figurano nella casella opposta dei vocaboli contrari. La domanda che ora ci poniamo è la seguente: che rapporto c’è tra croce e felicità? In altre parole: è proprio vero che la felicità abita in via della croce?
1. Ritorniamo al vangelo. San Marco ci ha appena riportato le parole di rabbi Gesù, il quale sta lasciando definitivamente la Galilea per dirigersi con i Dodici alla volta di Gerusalemme: là lo attende una orribile condanna a morte, eseguita a mezzo del supplizio più infamante e più crudele: la croce. A questo annuncio ribadito più volte dal Maestro quasi con accanita insistenza – si noti il verbo all’imperfetto ‘insegnava’ – i discepoli reagiscono con l’incomprensione più ottusa e si barricano dietro un silenzio confuso e sbigottito: “Essi non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”. Meglio il buio che la luce. Noi invece vogliamo vederci chiaro e per questo ci poniamo alla scuola del nostro unico Maestro, senza farci neanche sfiorare dalla paura di ascoltarlo e interrogarlo.
Prendiamo l’abbrivio da una constatazione spassionata: la croce ha sempre fatto e continua ancora a fare problema. Una ventina d’anni dopo la vicenda del Golgota, s. Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto afferma che il vangelo della croce è scandalo e follia: scandalo per gli ebrei, per i quali “un Messia che si rispetti”, mandato da Dio per incenerire i suoi nemici, non è neanche lontanamente concepibile che vada a finire miseramente su una croce. Ed è follia per i pagani, i quali non riusciranno mai e poi mai ad ammettere che un sedicente salvatore non sia riuscito a salvare se stesso dalla morte e dalla morte di croce.
Veniamo ora ai nostri giorni. Mentre secondo la cultura classica uomo felice era colui che vive secondo virtù, secondo la mentalità e la cultura radicale di oggi l’uomo è felice per piacere, non per virtù. La felicità, cui comunemente aspira l’uomo contemporaneo, consiste nel provare piacere in una determinata esperienza e non nell’esercitare una particolare virtù. Il pio desiderio degli antichi era la santità; l’irresistibile assillo dei moderni è non solo la copertura di tutti i bisogni, ma anche la soddisfazione di tutti i desideri. Infatti soddisfare i bisogni non basta; bisogna gratificare i desideri: si può non avere bisogno di nulla, ma si può sempre desiderare di tutto.
Nella società dei consumi si è passati dalla cultura dei diritti a quella dei desideri, la cui ala marciante sentenzia senza appello: ogni desiderio è un mio diritto. E il diritto più rivendicato oggi è quello al piacere individuale, inteso come la base e la fonte della felicità. Ogni piacere possibile ed esperibile è legittimo, per il semplice fatto che può essere sperimentato, e non perché sia moralmente buono. Si pensi all’uso sempre più diffuso della droga, con la quale si vuole dilatare il tempo del piacere, dell’eccitazione, della forza virtuale, della felicità artificiale. La cosiddetta fame dei ricchi – l’anoressia e la cura dimagrante – non soddisfa il bisogno di sopravvivenza, ma allarga il desiderio dell’apparenza.
La cultura di massa veicolata dai mass-media sposta il luogo da cui dovrebbe scaturire la mia felicità: non più in me, perché io sono soltanto un soggetto che reclama prestazioni, ma negli altri. Ma questo edonismo imperante va contro i suoi stessi proclami, in quanto non mantiene quello che promette. Promette con assillante bombardamento propagandistico una felicità low cost, ma finisce per produrre ansia e frustrazione: vi è tormento più infernale del desiderare “quel dolce pomo” della felicità (Dante) che di fatto più si rincorre e più si allontana? Il mito di Sisifo insegna.
Questa insoddisfazione congenita dell’homo desiderans si spiega con la dinamica stessa del desiderio, che per natura sua è vorace e insaziabile: più desideriamo godere e più desideriamo… godere sempre di più. Come la belva di dantesca memoria, che “mai non empie la bramosa voglia / e dopo ‘l pasto ha più fame che pria”. Così la tirannia del desiderio egoistico porta inesorabilmente alla lotta di tutti contro tutti. Seguire l’istinto, soddisfare le pulsioni, togliersi ogni capriccio non conduce forse ineluttabilmente a far soffrire altri per goderne? Il passo dal giardino della comunione – in cui ogni uomo è mio fratello – alla giungla della rivalità più feroce – in cui l’uomo diventa lupo per l’uomo – è fatalmente breve. Si arriva a distruggere ogni comunione, perché la privatizzazione dell’idea stessa di felicità congiura contro l’idea stessa di bene comune. Abbiano ascoltato l’apostolo Giacomo: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”. Parole ruvide, graffianti, senza sconti, che non si possono scolorire con ermeneutiche accomodanti.
Ma anche per quelli che noi diciamo più fortunati – i V.I.P., i rampanti – e che sembrano i vincenti nella lotta sfrenata per il primo posto, lo scatenamento delle pulsioni e l’esplosione delle voglie si tramutano in tetre anticamere della depressione più nera. Il desiderio di avere sempre di più, di apparire più degli altri, di conquistare potere sopra gli altri, di godere senza o contro gli altri, finisce per inghiottire gli individui nelle sabbie mobili della delusione più bruciante e di una insoddisfazione cronica e autodistruttiva. “Un non so che d’amaro – affermava disincantato il poeta latino – sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia anche in mezzo alle delizie” (Lucrezio). I “fiori del male” – ci assicura il loro stesso cantore – non hanno finito di spuntare che già mandano odore greve di decomposizione e di morte (Beaudelaire).
2. Sia chiaro: finora abbiamo parlato del piacere egoistico, che appunto perché disordinato, si trasforma in sofferenza arrecata agli altri, ma anche provocata a se stessi. Ora però qualcuno dirà: si sta rendendo conto il Vescovo di avere davanti a sé due giovani puliti e generosi, che stanno per dichiarare pubblicamente la decisione di intraprendere non la strada di un edonismo gaio e irresponsabile, ma precisamente la via stretta della povertà, castità e obbedienza, che li porterà, a Dio piacendo, alla ordinazione sacerdotale? Certo, e non è questo il sentiero della croce? Ritorna la domanda iniziale, che ora non può rimanere inevasa: questa via crucis è veramente una via lucis? Croce e felicità sono una unica “stella doppia” o appartengono a due galassie diverse e tra loro lontanissime? Insomma la via paupertatis è una vera via felicitatis? E ancora: se il matrimonio è cosa buona e benedetta, perché rinunciarvi? E se la libertà “è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta” (Dante), perché sottometterla all’obbedienza ad un uomo probabilmente più povero e peccatore di te?
La risposta a questo grappolo di domande potrebbe ora prendere due direzioni. La prima è quella dei fatti, i “fatti di vangelo”. Basta sfogliare il grande codice della santità, le vite dei perfetti cristiani, i testimoni della fede, e verificare… Ad esempio, c’è stato un uomo più povero di Francesco d’Assisi? e c’è stato un uomo che più di s. Francesco abbia vissuto la perfetta letizia? Venendo più vicino a noi: abbiamo mai incontrato da qualche parte un prete più povero, casto e generoso di don Oreste, e insieme uno più contento e felice di lui? Abbiamo mai sentito parlare di Angelo Giuseppe Roncalli, un autentico servo di Dio, sempre obbediente eppure sempre libero e sereno, che ha testimoniato come oboedientia et pax siano due vere sorelle gemelle?
Ma noi siamo animali razionali e non ci basta “toccare”; vogliamo capire. Toccare con mano ci serve, ma vogliamo entrare almeno un po’ nella nube oscura e luminosa del mistero della croce. Ecco allora la seconda direzione della nostra apologia della croce: renderci conto, e “rendere ragione” a chi non crede, del perché la croce, abbracciata per amore di Gesù e dei fratelli più poveri, non sia l’amputazione di quanto c’è in noi di più vero e grande e bello. Ne è piuttosto la piena espansione e la realizzazione più alta, più attraente e persuasiva.
Contemplando il volto di Gesù e dei santi, si vede in modo abbagliante che povertà, castità e obbedienza non rappresentano un “protocollo di morte”, ma sono le corsie preferenziali per la vera felicità. E’ proprio così: non è vero che la povertà faccia godere di meno; piuttosto fa godere di più perché ti distacca dalla frenesia e dall’ingordigia incontentabile, che per godere subito, qui ed ora, finisce per non farti gioire più di nulla. Non è vero che la verginità faccia amare di meno, semmai ti fa amare di più, perché sana in radice la tua voglia malsana di possedere l’altro e di trattarlo secondo l’imperativo consumista: “usa e getta”. Non è vero che l’obbedienza ti rende più dipendente, ti rende anzi più libero, perché ti fa raggiungere la libertà più solida e matura: non quella del tuo io dagli altri, ma quella dal tuo io per gli altri e con gli altri.
3. Carissimi Ugo e Gino, mi chiedete di essere ammessi tra i candidati al diaconato e al presbiterato.
Tu, Ugo, che hai maturato questa scelta nella positiva esperienza dell’Azione Cattolica e poi nel nostro Seminario, mi hai scritto testualmente: “Arrivo alla candidatura, consapevole della mia umana impossibilità di essere perfettamente fedele alla vocazione ricevuta, e implorando la grazia che Dio, fedele per sempre, custodisca il mio cuore nella sua fedeltà, continuamente convertito dal suo amore”.
Tu, Gino, che provieni da una intensa esperienza scoutistica, mi hai confidato: “Mi propongo di essere fedele alla vocazione a cui il Signore mi sta chiamando e nello stesso tempo voglio conoscere il suo mistero attraverso la preghiera, lo studio e l’azione pastorale, con particolare attenzione verso coloro che sono in difficoltà: ragazzi che vivono situazioni problematiche, giovani in crisi, e malati”.
Che il Signore accolga e custodisca il vostro santo proposito! E che il cammino che oggi serenamente incomincia, giunga felicemente a compimento! E’ il nostro augurio. E la nostra preghiera.
+ Francesco Lambiasi