Discorso alla Città, al termine della processione del Corpus Domini, 11 giugno 2009 –
Il Signore non ha bisogno di uscire di chiesa per entrare in città. Tutto è suo – uomini e cose, cronaca e storia – e ogni palpito di bontà, ogni bagliore di bellezza, ogni frammento di verità non è che il pallido riflesso del suo sconfinato, tenerissimo amore per noi. Siamo noi che abbiamo bisogno di uscire dal tempio per camminare dietro l’unico Maestro e Signore per le strade della città. Ecco il significato della solenne processione con il SS.mo Sacramento: noi cristiani vogliamo gridare forte il nostro amore attivo e tenace per questa città e i suoi abitanti, in particolare per quelli che non credono.
Nulla di ciò che tocca la città ci è estraneo: tutti i suoi problemi sono nostri, perché sono di Cristo; tutti i suoi dolori e turbamenti percuotono il cuore della Chiesa, nostra madre, e si ripercuotono nel nostro cuore di figli e fratelli. Perciò noi preghiamo perché questa città riapra, anzi spalanchi di nuovo le porte a Cristo. Nessuno abbia paura di Lui! Cristo è Signore, ma non vuole inibire o reprimere, vuole solo redimere e salvare; vuole solo liberare. Cristo vince e trionfa, non quando la nostra umanità è amputata e repressa, ma quando viene tutelata ed efficacemente promossa, soprattutto se è l’umanità di chi è incapace di difendersi, è senza volto e senza nome, addirittura non nato, uno dei tanti che non contano nulla.
Le parole che la Chiesa vuole dire alla città al termine di questa solenne processione non sono diverse dalle parole che costituiscono il lessico di base dell’Eucaristia: sono le stesse, ma declinate sul versante di una prospettiva puramente civile. Tra le tante parole-chiave per dire l’Eucaristia e per tradurne l’incalcolabile “capitale sociale”, tre in particolare meritano di essere riprese e rilanciate: memoria, gratuità, comunione.
1. Una città che recuperi la memoria
Noi cristiani non facciamo memoria di Cristo radunandoci attorno alle sue ceneri, o erigendogli un mausoleo in una pubblica piazza. Noi celebriamo il memoriale di Cristo obbedendo al suo comando: “fate questo in memoria di me”. Ma fare memoria non è commemorare. Il memoriale liturgico fa rivivere la realtà degli eventi non solo soggettivamente, dentro il nostro cuore, ma “veramente, realmente, sostanzialmente”, ossia oggettivamente. L’Eucaristia non è una rievocazione nostalgica della Pasqua del Signore, ma una sua attualizzazione effettiva ed efficace: noi diventiamo contemporanei di Cristo, come Cristo diventa contemporaneo nostro. Ci ricordiamo di lui, della sua morte e risurrezione, cioè partecipiamo alla sua vita, ci inseriamo nella sua passione e glorificazione, e raccogliamo su di noi il suo sangue purificatore.
Oggi si registra un acuto bisogno di riacquistare la memoria. L’uomo contemporaneo rassomiglia a un viandante colpito sulla strada da improvvisa amnesia: continua a camminare frettolosamente, caparbiamente, ma non ricorda più da dove venga e dove vada. La comunità cristiana, facendo memoria del suo Signore morto e risorto, ricorda a tutti l’insufficienza di una vita schiacciata sul presente, appiattita sull’attuale e sull’effimero. Una città cordialmente abitabile ha bisogno di recuperare la memoria storica del suo passato, se non vuole ridursi a squallido agglomerato di appartamenti in serie e di quartieri-dormitorio.
Non si tratta di indulgere a vaghe, trasognate rimembranze, ma di recuperare le radici, per tradurre la massa del passato in energia di futuro. Riguardo alla crisi finanziaria in atto, ad esempio, non ci dice niente il ricordo delle cooperative e delle casse rurali, moltissime di matrice cattolica? E’ chiaro: il passato non va imbalsamato o mitizzato, ma anche la memoria di errori commessi – ad esempio, nel caotico sviluppo urbanistico – ci può essere utile per evitare di commetterne oggi di più gravi.
2. Una città che reimpari la gratuità
Eucaristia significa letteralmente “rendimento di grazie”: i cristiani formano il popolo che, pur negli tsunami della storia e negli infortuni della vita, si lascia raggiungere sempre da quell’onda di felicità che deriva dalla fede in un Dio che è Padre e sa trasformare in altrettante “grazie” le tante “disgrazie” che ci affliggono. Di qui la perfetta letizia, di francescana memoria, che ha reso la vita sopportabile a tante generazioni che ci hanno preceduto, anche in momenti difficili e tragici.
Oggi però si va affermando una cultura del “dovuto”, vale a dire di ciò che mi è dovuto, o perché l’ho acquistato con i miei soldi o perché l’ho conquistato con i miei sforzi e talenti. Si va smarrendo il senso del “dato”, di ciò che mi è stato donato, senza che io l’abbia potuto richiedere o meritare. Si pensi al dono della vita: chi di noi ha presentato domanda di venire al mondo? Un figlio è un dono, non un prodotto.
Ecco un altro grande regalo che la Chiesa può e vuole fare alla città, attraverso l’Eucaristia: aiutare tutti a riscoprire la gratuità come valore irrinunciabile dell’esistenza. Tutti siamo preziosi, anche gli emarginati, i malati, gli anziani, gli immigrati: nessuno è inutile, nessuno superfluo. Tutti siamo abbastanza ricchi per poter dare, abbastanza poveri per dover ricevere. Tutto ciò che siamo e facciamo, possiamo e vogliamo viverlo in spirito di gratitudine e di gratuità, con stile di condivisione e di corresponsabilità: il lavoro, lo studio, la ricerca, l’educazione, il volontariato, il servizio, la festa, il riposo. Noi credenti, in particolare, abbiamo un debito nei confronti della città: siamo chiamati a condividere con tutti la serenità di sapere che alla nostra origine c’è un atto di amore e che la vita sulla terra è un più o meno lungo, faticoso, ma appassionante allenamento ad una felicità intramontabile.
3. Una città che riscopra la comunione
“Fare la comunione” è espressione corrente per dire il massimo della partecipazione all’Eucaristia. E “comunione” è parola che segna un fecondo punto di tangenza tra la sfera cristiana e quella civile, come risulta anche dai sinonimi “comunità-comune” di cui abitualmente ci si serve per indicare l’una e l’altra aggregazione. I cristiani non si ritirano in territori appartati, non si arroccano in cittadelle fortificate, ma abitano la città degli uomini, portandovi una cultura della comunione che fa bene a tutti. San Tommaso d’Aquino, citando Aristotele, affermava che “communicatio facit civitatem – la comunicazione costituisce la comunità civile”, intendendo per communicatio la condivisione di un fine comune, e intendendo per fine comune il bene comune di molti, che – aggiungeva – è “più conforme a Dio” (divinius) del bene del singolo individuo.
In una cultura ad elevato coefficiente di individualismo, i cristiani vogliono essere fermento di fraternità, portatori di una idea di libertà più sana e più alta. C’è infatti una libertà “negativa”, che consiste nel voler essere liberi da – dagli altri. In questo modello le libertà individuali si escludono a vicenda: dove comincia l’una, l’altra deve fatalmente finire. Il modello cristiano di libertà invece è la libertà – “positiva” – con gli altri: la libertà di ciascuno comincia dove comincia quella dell’altro e finisce dove quella finisce. Ma questo modello “cristiano” non è profondamente umano? Là dove prevale invece il primo modello non si arriva a distruggere ogni dimensione comunitaria, per cui alla fine nessuno risponde più di nessuno a nessuno? Occorre perciò saldare insieme libertà e comunità, perché la libertà non scada ad arbitrio e degeneri in sopruso, e la comunità sia qualcosa di molto di più della semplice coesistenza.
Oggi la fede cristiana è insidiata dal sospetto di intolleranza, perché come ogni religione, alimenterebbe le divisioni e le lotte tra gli uomini. Certo, la storia prova come la religione senza amore sia qualcosa di terribile. Infatti, quando l’Assoluto viene mescolato con le vicende umane, di per sé relative e discutibili, provoca una miscela esplosiva micidiale. Ma il cristianesimo senza amore verso i non cristiani sarebbe ancora cristianesimo? E non è forse proprio la legge dell’amore che impegna noi cristiani non certo a spogliarci della nostra appartenenza, ma a viverla senza esclusioni e senza fanatismi? Il fondamentalismo religioso non è l’alleato naturale del cristianesimo, ma il suo più accanito antagonista.
Ecco il messaggio che viene dall’Eucaristia alla nostra amata Rimini: fare di Cristo il cuore della città dell’uomo significa costruire una città per l’uomo e a misura d’uomo. In questo senso cultura eucaristica e civiltà dell’amore coincidono perfettamente.
Invochiamo la benedizione del Signore su Rimini e su tutti i suoi abitanti. Lo facciamo con parole povere: “Concedici, Signore, di essere una Chiesa viva, perché viva la nostra città, e viva in pienezza di umanità”.
+ Francesco Lambiasi