Omelia tenuta in Cattedrale, Domenica 8 marzo 2009 in occasione della ordinazione diaconale di Francesco Soldati e GianCarlo Pelliccioni
“In quel tempo…”: di solito, nella proclamazione liturgica del vangelo, la sequenza viene sempre introdotta con questa clausola di rito: “In quel tempo…”. La formula stereotipa si spiega con il fatto che le varie pericopi evangeliche non riportano quasi mai la data precisa dell’evento riferito. Anche il brano della trasfigurazione è stato introdotto poco fa, con l’incipit usuale: “In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. E fu trasfigurato davanti a loro”. Eppure l’evento della trasfigurazione sul monte è uno dei pochissimi che in tutti e tre i sinottici si apre con un riferimento cronologico abbastanza preciso: “sei giorni dopo”. Così si legge in Marco e Matteo. Mentre in Luca la formula è arrotondata per approssimazione: “circa otto giorni dopo”.
1. Visto il rimando ad un avvenimento precedente, viene da chiedersi: cosa avvenne circa sei-otto giorni prima? La risposta a questa domanda è importante, perché ci aiuta a contestualizzare l’evento della trasfigurazione sul Tabor e il relativo messaggio per noi.
Una settimana prima si era verificato un fatto imprevedibile, un avvenimento cruciale che, nel racconto dell’evangelista Marco, fa da cerniera tra la prima e la seconda parte del suo libretto. Giunto verso le parti di Cesarea di Filippo, Gesù aveva posto ai discepoli due domande da capogiro: Cosa dice la gente di me? Ma voi, chi dite che io sia? Pietro aveva risposto con parole più grandi di lui, che devono aver fatto correre un brivido lungo la schiena ai suoi compagni: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Fu un lampo: nel roccioso pescatore di Betsaida Gesù intravide la pietra di fondazione del futuro edificio della sua Chiesa e promise di consegnargli le pesanti chiavi del Regno. Ma subito dopo raggelò i Dodici con parole agghiaccianti, che annunciavano un destino spaventoso, fatto di umiliazioni e di malvagità, di abbandoni e di rifiuti, di calunnie e di crudeltà, fino alla condanna a morte, e a una morte di croce. Dopo il bagliore folgorante di qualche istante prima, Pietro piombò nel black-out totale, si mise a contestare il Maestro, e finì per sentirsi scacciato da lui come il Satana, il serpente tentatore.
Ecco dunque cosa c’è immediatamente prima del racconto della trasfigurazione: c’è la confessione di Pietro e la sua sconfessione; c’è la promessa della gloria e l’annuncio della croce. I giorni seguenti dovettero essere molto amari per il primo dei Dodici e i suoi compagni. Ma poi, verso la fine della settimana seguente, sul Tabor la luce tornò e spazzò via ogni ombra residua. Dio ruppe il silenzio e si schierò dalla parte del Figlio: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo”. Le due “verità di Cesarea” – quella detta da Pietro a Gesù e quella detta da Gesù a Pietro e compagni – risultano ora approvate e pienamente confermate: Gesù è il Figlio, mandato dal Padre a morire per salvare la vita dei fratelli.
Quel giorno fu un autentico “sgorgo di divinità” (C. Pavese). Cristo si manifestò come “lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo” (VC 16). Il cuore dei tre discepoli dovette battere all’impazzata. Come sarebbe bello – esclamò Pietro tra l’estasiato e il tramortito – rimanere qui per sempre! E invece no, bisogna affrettarsi a scendere dal monte, bisogna lasciarsi rinviare sulle strade polverose del mondo: là, giù nella valle, c’è un povero ragazzo epilettico che attende di essere guarito. Così la trasfigurazione risulta incorniciata dall’annuncio della croce e il servizio ai poveri.
2. Ed è più la cornice che il quadro del Tabor che io vorrei provare a mettere a fuoco questa sera con voi, carissimi diaconi. Così passiamo, dal tempo del vangelo – “in quel tempo” – a vedere cosa dice a noi il vangelo, “in questo tempo”. Dalla concatenazione degli eventi (annuncio della croce – trasfigurazione sul monte – discesa a valle per guarire i malati e guidare le folle) la conclusione obbligata è che non si dà e non si può dare servizio cristiano che non sia preceduto dalla contemplazione. Nel passo parallelo san Luca annota che “il volto (di Gesù) cambiò d’aspetto, mentre pregava”. Ecco i due momenti o sensi della mistica cristiana: il primo momento è l’ascensus ad Deum – la salita verso Dio, o contemplazione – e il secondo è il descensus ad hominem – la discesa verso l’uomo, che è il momento del servizio.
Al termine della salita si trovano le pagine incandescenti di Giovanni: “In principio era il Verbo”, si trova la vertiginosa contemplazione del Dio trinitario, si trova lo splendore abbagliante della vita divina. Ma subito dopo si legge: “E il Verbo si fece carne”, è disceso, si è fatto servo “per noi uomini e per la nostra salvezza”.
Arriviamo a fissare un primo messaggio: il cristiano deve salire per poter discendere, deve contemplare per poter servire. Si comprende che cosa sia il servizio solo dopo aver contemplato Colui che è disceso per servire: se è disceso il Verbo, abbassarsi per servire è cosa divina: “servire Dio e i fratelli è regnare”.
Commenta s. Agostino:
“Scendi, Pietro; desideravi riposare sul monte: scendi. Predica la parola di Dio, insisti in ogni occasione opportuna e importuna; rimprovera, esorta, incoraggia, usando tutta la tua pazienza e la tua capacità di insegnare. Lavora, affaticati molto, accetta anche sofferenze e supplizi, affinché, mediante il candore e la bellezza delle buone opere, tu possegga nella carità ciò che è simboleggiato nel candore delle vesti del Signore. (…) Scendi, Pietro, a lavorare, a servire, a essere disprezzato, crocifisso. E’ discesa la Vita per farsi uccidere, è disceso il Pane per soffrire la fame, è disceso chi era la Via per sottoporsi alla stanchezza lungo la via, è discesa la Sorgente per patire la sete: e tu ricusi di lavorare? Non cercare il tuo interesse. Abbi la carità. Proclama la verità. Allora perverrai a quella eternità in cui avrai la pace”.
3. Completiamo ora il passaggio dalla contemplazione al servizio, con un particolare riferimento a voi, carissimi Francesco e Giancarlo, che state per essere ordinati diaconi. Nel diaconato tutto, a cominciare dal nome, dice servizio. I diaconi
“sono chiamati ad esprimere, secondo la loro grazia specifica, la figura di Gesù Cristo servo, ricordando così anche ai presbiteri e ai vescovi la natura ministeriale del loro sacerdozio, e animando con essi, mediante la Parola, i sacramenti e la testimonianza della carità, quella diaconia che è vocazione di ogni discepolo di Gesù e parte essenziale del culto spirituale della Chiesa” (ECEI, 5/1846).
Più che entrare ora nella complessa problematica della valorizzazione pastorale del ministero diaconale, vorrei provare a declinare alcuni tratti della spiritualità del servizio. Ci lasciamo ispirare dalla parola di Gesù: Chi vuole diventare grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10,43ss).
Non sono parole tenere; sono come le pietre focaie: pietre dure, ma da cui si cava il fuoco. Vediamo alcune luci che sprizzano fuori da queste parole scintillanti. La prima è che servire non è un settore o un ambito della vita, ma una dimensione che l’abbraccia interamente. L’espressione: “sono venuto per servire” indica che qui Gesù non sta parlando solo di autorità, ma di esistenza. Servire per lui non è semplicemente un ruolo da assumere o un’attività da svolgere. Servire è un modo di vivere. Non si tratta soltanto di immaginare l’autorità come servizio, ma ancor prima di concepire l’esistenza come dono. Questo significa che non si possono vivere alcuni spazi come servizio e altri come ricerca di sé. Non è possibile essere servi disinteressati nella vita pubblica e mercenari taccagni e venali nella sfera privata, e viceversa. Se pensi alla vita come un tuo tesoro geloso, da sfruttare a tuo esclusivo vantaggio, fatalmente anche il servizio nella Chiesa lo piegherai al tuo esclusivo vantaggio. O tu servi o ti servi. O tu servi oppure asservi. Non si può essere “a mezzo servizio” nel regno di Dio. Non si può entrare a servizio del vangelo con il cuore dello stipendiato. Diceva giustamente don Milani che quando ci si mette a servizio dei poveri, “bisogna fare strada ai poveri, senza farsi strada”. Non ci si mette a servire per diventare grandi. Per Gesù non sei grande se fai cose grandi, ma diventi grande se ti fai servo.
Però, per avere la forza di servire i fratelli “a modo di Cristo” – è la seconda luce – è necessario tenere lo sguardo fisso su di lui, sul suo esempio luminoso, sulla radicalità e totalità della sua intrepida dedizione. Gesù non è uno dei tanti servi buoni e fedeli nella casa del Padre, e neanche il primo della serie, perché è il “fuori-serie”. E’ “il” servo perché è “il” Figlio; è il Figlio-Servo: è il Servo con il cuore del Figlio, ed è il Figlio con il grembiule del Servo. Non si è improvvisato servo, ma si è formato nei lunghi e oscuri anni di Nazaret, alla scuola di Maria, la serva del Signore, e del servo di Dio, il “giusto” Giuseppe. Non ha mai cercato il suo successo personale, ha cercato solo di realizzare il piano del Padre. Non ha tenuto corsi e non ha pubblicato dispense sul servizio, ma lo ha praticato con umile e gratuita fedeltà. Non ha mai trattato gli altri come problemi da risolvere o come “funzioni” da utilizzare, ma solo come persone da amare, e perciò da servire. E nel servizio non ha mai confuso l’efficienza dell’attività con l’efficacia della sua opera.
Con questo sguardo verso il Servo del Signore, “dolce e umile di cuore”, si può affrontare qualsiasi servizio, anche il più umiliante, perfino il più faticoso e il meno gratificante. Ma senza tale sguardo, è naturale domandarsi il perché di tanto correre inutile, di tanta fatica a vuoto, di tante delusioni scottanti. E a un certo punto diventa inevitabile desistere, rallentare il passo o addirittura volgersi indietro e fare inversione ad U.
4. Oggi viviamo in una cultura affetta dalla sindrome di egopatia acuta. La sintomatologia si riassume nel titolo di un film di tanti anni fa: “Io, io, io e… gli altri”. L’io senza gli altri: io da una parte e gli altri dall’altra; l’io sopra gli altri, sempre e a qualsiasi costo, anche al costo salatissimo per tutti, quello dell’io contro gli altri. Ma spettacoli così tristi non si vedono solo nel mondo. Non è forse anche questa la “sporcizia” nella Chiesa, di cui parlava il Card. Ratzinger nella Via Crucis del Colosseo del 2005, qualche giorno prima della sua elezione a papa?
Cari diaconi, “saliamo sul Tabor con Lui: Gesù è maturo”, ha scritto con finezza e rara sensibilità Paul Claudel. L’espressione significa che nella trasfigurazione il Maestro ha voluto mostrare ai discepoli che egli non lasciava accadere la sua passione, con rassegnato, arrendevole vittimismo, come un evento fatale e del tutto inevitabile, ma vi andava incontro con libera, consapevole decisione, come egli stesso afferma in Giovanni: “Nessuno mi toglie la vita, io la offro da me stesso”: Gv 10,18).
Tenete fisso lo sguardo su Gesù, il Servo del Padre, che per amore suo si dona ai fratelli. “Guardate a lui e sarete raggianti; i vostri volti non dovranno arrossire”. Guardate a lui, e anche voi farete l’esperienza della trasfigurazione, e diventerete servi radiosi, audaci e appassionati, capaci di far rimare i verbi della tenacia con quelli della tenerezza.
Diaconi-che-servono – semplicemente, fedelmente, disinteressatamente – questi sono i diaconi-che-ci-servono. Oggi gli uomini di questo tempo non solo chiedono a noi credenti, spesso senza neanche rendersene conto, di “parlare” di Gesù, ma in un certo senso ci domandano di farglielo “vedere”. Ecco il nostro appello: Cari diaconi, “vogliamo vedere Gesù”, non solo attraverso di voi, ma in voi, nella vostra vita. Fatecelo vedere nella vostra diaconia, una diaconia svolta con la gratuità di chi serve senza pretendere né titoli né medaglie, senza reclamare diritti di autore, senza dirlo neppure a se stessi. Una diaconia libera e lieta, che trasfigura la massa della inevitabile fatica del servizio nell’energia incontenibile dell’amore più grande: quello che serve e che salva.
“Mostri il Signore il suo volto, e voi fateci vedere la vostra gioia!” (cfr Is 66,5). E la vostra gioia non avrà mai fine…