Omelia tenuta dal Vescovo in occasione della Veglia di Pentecoste, promossa dalla Consulta Diocesana per le Aggregazioni laicali – Cattedrale di Rimini
Tante letture, un solo messaggio, questo: la Chiesa o evangelizza o non è. Abbiamo ascoltato: il giorno di Pentecoste, appena nasce, la Chiesa è – per così dire – ancora in fasce, e già è in grado di parlare, anzi di parlare più lingue, in quella sorta di “traduzione simultanea” che permette a Parti, Medi, Elamiti, Ebrei e Arabi di confessare stupefatti: Siamo di paesi e di lingue diverse, eppure, Pietro e compagni, noi “li udiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At 2,11). Per giunta questo primo annuncio della salvezza nel nome di Gesù viene dato dagli apostoli “con tutta franchezza”, ed è “con grande forza” (At 4,29.33) che viene da loro comunicata la sorprendente notizia della inattesa risurrezione del Nazareno.
1. La Chiesa è stata “concepita” dal Signore per evangelizzare, ed è nata camminando: “Andate” è l’ultimo verbo del Maestro e il primo della sua giovanissima comunità.
Anche noi siamo stati chiamati per andare, e stasera ci è dato di riprendere nuovamente coscienza che “lo Spirito del Cristo risorto ci manda ad evangelizzare”, come recita il titolo-tema della nostra veglia.
Ma, domandiamoci, cosa significa evangelizzare? e chi fa cosa? ossia chi comunica quale vangelo? Il rischio, a cui siamo continuamente esposti, è quello di intendere l’evangelizzazione come una attività nostra a favore di Cristo. Ma se così fosse, inevitabilmente l’evangelizzazione sarebbe la somma algebrica delle nostre più o meno buone volontà, o il prodotto ottenuto moltiplicando iniziative e attività perseguite con i nostri sforzi umani, per quanto eroici e spasmodici, e la missione si ridurrebbe a campagna pubblicitaria o al più ad accanita, forsennata propaganda.
E’ difficile definire precisamente cosa è “evangelizzazione”, non perché sia una sorta di geroglifico indecifrabile, ma perché è mistero, “realtà umana imbevuta di divina presenza” (Paolo VI). Forse si potrebbe arrischiare una formula breve del tipo: l’evangelizzazione è Gesù con noi per il mondo. Proviamo a scomporre questa formula.
L’evangelizzazione è innanzitutto Gesù: non è, appunto, una “cosa” e neppure primariamente un’attività; è una presenza, o meglio una persona: Lui! Lo ha detto Lui stesso: “Ed ecco, io sono con voi, fino alla fine del mondo”. Nel vangelo di Marco si legge testualmente: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio”. Qui ci si aspetterebbe la parola “fine”. E invece la storia continua: “Allora essi partirono e portarono dappertutto il lieto messaggio del vangelo, mentre il Signore agiva insieme con loro” (Mc 16,19-20). Ecco l’evangelizzazione: è una sinergia di Gesù-con-noi, ma resta Lui il primo evangelizzatore: primo, non solo in senso storico, ma anche in senso teologico: non è semplicemente il primo della serie, non ha semplicemente cominciato l’opera, ma continua a portarla avanti con il suo stesso Spirito. Questo è il senso della promessa che chiude il vangelo di s. Matteo, che ci è stato proclamato: “Ed ecco Io-sono-con- voi”. Cioè: Io sono affianco a voi, cammino con voi, agisco in collaborazione con voi, opero continuamente in voi e attraverso di voi, per la salvezza del mondo.
Se la Chiesa è coestensiva e coincidente con la missione, allora si può dire della missione ciò che si deve dire della Chiesa: essa non si organizza, ma si genera.
2. Non abbiamo stasera il tempo per soffermarci sul terzo elemento della formula breve dell’evangelizzazione (“per il mondo”). Ma, tenendo presente che questa veglia è promossa e animata dalla Consulta Diocesana delle Aggregazioni Laicali, vorrei, almeno brevemente, soffermarmi ora sul secondo elemento: il “noi” ecclesiale. Il “noi” dell’evangelizzazione è il noi del corpo di Cristo, che agisce in sinergia con il suo Capo, e la cui vita è sostenuta e regolata da tre leggi fondamentali.
La prima è la legge della fraternità. Prima di essere chiamati “cristiani”, i discepoli del Signore si chiamavano semplicemente così: fratelli. In questo ci si atteneva alla consegna del Maestro il quale aveva detto con estrema chiarezza: “Uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Se la solidarietà rende noi tutti uguali, e la libertà ci rende tutti diversi, la fraternità fa di noi tutti uguali e ognuno diverso! S. Paolo afferma che nel corpo mistico di Cristo che è la Chiesa, è appunto la fraternità che fa coesistere in continua, reciproca tensione vitale sia l’unità che la diversità, e lo afferma con due proposizioni che si sostengono a vicenda: “il corpo è uno solo ma ha molte membra”, “le membra sono molte ma il corpo è uno solo” (1Cor 12,14.20). Dal che consegue che unità e diversità non sono in proporzione inversa, ma sono come due coordinate cartesiane: se cresce l’una, cresce automaticamente anche l’altra. In altre parole l’unità non è il correttivo della diversità e viceversa, ma l’unità armonizza le diversità senza azzerarle, e la diversità è il solo modo di realizzare l’unità. La diversità non è per la competizione, ma per la collaborazione; esiste “per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il copro di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio” (Ef 4,12-13)
La ragione di questa tensione vitale tra unità e diversità è di origine trinitaria: come nella Santa Trinità le tre Persone divine sono perfettamente fuse senza essere confuse; sono infinitamente distinte senza per questo essere distanti, così è nella fraternità ecclesiale. La conclusione è questa: nemica dell’unità non è la diversità, è l’uniformità, ma non l’unanimità. San Paolo infatti invita ad essere “unanimi nel parlare, in perfetta unione di pensiero e di intenti” e ad “avere gli stessi sentimenti” (1Cor 1,10; 2Cor 13,11).
3. La seconda legge vitale del corpo ecclesiale è la gratuità. Ricordiamo la parola del Maestro: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Ancora una volta il riferimento al “noi” trinitario è obbligato. In Dio le tre Persone si danno tutto reciprocamente e tutto reciprocamente ricevono. Così la Chiesa, dando ciò che ha ricevuto – poiché niente è nostro – diventa una sorta di antenna satellitare ricetrasmittente, sulla terra, della santa e indivisibile Trinità.
La terza legge del noi ecclesiale è la reciprocità. In continuazione nel NT ricorre l’avverbio di reciprocità: “vicendevolmente”, “gli uni gli altri”, come: salutatevi, perdonatevi, accoglietevi, amatevi, correggetevi gli uni gli altri.
Di queste espressioni vorrei riprendere quella che a mio avviso esorcizza ogni possibilità di competizione e di conflitto. Ed è di s. Paolo, il quale rivolge ai cristiani di Roma questo appello accorato: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10).
Vi invito, fratelli e sorelle, ad accogliere questa parola non come parola di uomini – del Vescovo e neanche del solo Paolo – ma come essa veramente è: come parola di Dio. Se voi farete a gara nello stimarvi a vicenda, allora state tranquilli: non farete fatica ad amarvi, ad aiutarvi, a sostenervi, a consolarvi, ad edificarvi a vicenda.
Ve lo auguro di cuore con queste parole di Gregorio di Nissa:
“Fra tutte le parole che Gesù rivolge al Padre e le grazie che egli concede, una ce n’è che è la maggiore di tutte e tutte riassume. Ed è quella con cui Cristo ammonisce i suoi a trovarsi sempre uniti nelle soluzioni delle questioni e nelle valutazioni circa il bene da fare; a sentirsi un cuor solo e un’anima sola e a stimare questa unione l’unico e solo bene; a stringersi nell’unità dello Spirito con il vincolo della pace; a fare un solo corpo e un solo spirito; a corrispondere ad un’unica vocazione, animati da medesima speranza” (In Cant.).
Concludo con le parole veramente ispirate di s. Paolo, il cantore della carità fraterna: “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito santo” (Rm 15,13).